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Home - Il mestiere del Sindacato - Il futuro dopo la concertazione

Il futuro dopo la concertazione

17 Aprile 2014
in Il mestiere del Sindacato

Che farà il sindacato da grande? Qual è il mestiere del sindacato? Interrogativi assolutamente non fuori luogo in questa lunga notte dei corpi intermedi, di cui non si vede la fine.

Certo non sembra che, almeno nel prossimo futuro, la concertazione torni a essere il modo di espressione del sindacato. Gli ultimi governi non hanno creduto nell’opportunità di coinvolgere i sindacati, ma nemmeno le organizzazioni di imprese, nella messa a fuoco delle loro strategie economiche. Lo ha fatto solo Prodi, ma dopo nessuno ha creduto in questo strumento, nemmeno Enrico Letta, che pure affermava di voler governare d’accordo con le parti sociali. Per il futuro, nebbia fitta. Renzi tutto vuole meno che dare spazio al sindacato, Grillo pensa che i sindacati vadano tolti di mezzo, altre forze che possano pensare di arrivare alla guida del paese non se ne vedono.

Il sindacato potrebbe limitarsi a gestire la crescita salariale? Anche questa funzione sembra abbia perso di smalto, se mai l’ha avuto. Quando c’era la scala mobile, spazio per la crescita salariale non ce n’era. Con la politica d’anticipo, quando i salari seguivano i tassi di inflazione programmati, lo spazio c’era fino a quando il sindacato decideva assieme al governo i tassi di inflazione, ma, appunto con conclusione della concertazione, questo ruolo è finito, per cui i salari sono cresciuti semplicemente seguendo l’inflazione. Anche qui, poco da fare. C’è sempre il salario legato alla produttività, è vero, quello che si stabilisce in azienda. Che però ha due difetti, il primo che è temporaneo, nel senso che vale per il periodo cui si riferisce, poi decade. Il secondo è che rappresenta una quota minima rispetto alla massa salariale, non arriva al 5%, spesso si colloca tra il 2 e il 3%.

Né le prospettive sono rosee, basta riflettere sul fatto che Renzi mette in busta paga dei lavoratori dipendenti, gli stessi che dovrebbero essere difesi dal sindacato, 80 euro netti al mese, 1.000 euro l’anno, più di quanto di sindacato abbia mai potuto sperare. In più, il governo vuole instaurare il salario minimo, che verrebbe automaticamente a sostituire i minimi contrattuali, proprio quello che il sindacato bene o male determinava con la contrattazione. Una volta che il governo abbia stabilito i minimi contrattuali e aumentato il salario, per il sindacato resterebbe poco da fare.

A questo punto la domanda da cui siamo partiti acquista concretezza. Che farà il sindacato nei prossimi anni? Si potrebbe aggiungere anche che faranno la Confindustria e le altre organizzazioni datoriali, ma queste hanno una competenza non solo per la parte sindacale, quindi qualcosa da fare lo troveranno sempre, anche se è indubbio che nel momento in cui il sindacato perdesse di rilevanza politica e sociale anche loro subirebbero un’eclissi, non totale, ma certo molto forte.

Dobbiamo rassegnarci quindi a veder deperire il sindacato e in generale le parti sociali? E’ difficile crederlo, non fosse che perché rappresentano milioni di lavoratori e centinaia di migliaia di aziende. Il sindacato è nato per difendere i lavoratori di fronte all’arroganza dei padroni dell’ottocento. Erano deboli divisi, si sono uniti per poter resistere. E hanno resistito. E non è nemmeno vero che i lavoratori siano meno deboli di allora. La globalizzazione e la precarietà insita in un mondo dove le certezze non esistono più, almeno quelle economiche, hanno indebolito i più deboli, e tra questi ci sono certamente i lavoratori. Il potere politico, quello che non vuole sentir parlare di sindacato, non sembra capace di sostituire il sindacato nel ruolo di garante dei lavoratori. Non fosse che perché i politici per definizione rappresentano la totalità dei cittadini, non solo i lavoratori e non solo i lavoratori dipendenti.

Ma allora, torniamo a chiederci, qual è il mestiere che aspetta il sindacato? Io credo che sia tutto da scoprire, ma dentro i posti di lavoro. I risultati migliori il sindacato li ha avuti quando ha trattato davvero in fabbrica la condizione del lavoro. Perché non c’è solo il salario per il lavoratore, conta molto anche, forse persino di più, il modo in cui si presta il proprio lavoro. E questo conta anche per l’azienda, perché trattando in materia di organizzazione del lavoro si migliora la produttività, quindi la competitività delle imprese, quindi, e qui torna l’interesse del sindacato,  il posto di lavoro, perché un’azienda che non è competitiva prima o poi esce dal mercato, quindi licenzia.

Un sindacato che contratta in azienda la condizione del lavoro, l’organizzazione del lavoro, la produttività, la classificazione del lavoro. Un sindacato di cui il lavoratore si fida perché lo vede accanto a sé nei momenti di difficoltà, perché vede che gli porta dei benefici reali, consistenti.

Un sindacato che non sia però corporativo, e per questo è necessaria la forma confederale. Perché un sindacato corporativo, di mestiere, può essere forte, anche molto forte quando controlla una minoranza di lavoratori indispensabili per l’azienda, ma non avrà mai la caratteristica universale del sindacato confederale, che sa decidere tenendo conto degli interessi, delle necessità di tutti i lavoratori di tutti i comparti economici. Un sindacato che, proprio per queste sue caratteristiche, è in grado di rappresentare tutti i lavoratori.

Ma il sindacato che abbiamo oggi è in grado di compiere questa trasformazione? Gli uomini che fanno parte del gruppo dirigente del sindacato sono in grado di gestire questo passaggio?E’ la sfida di questi anni, vedremo assieme come andrà a finire.

redazione

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