Il lavoro a distanza è stato, e continuerà, ad essere uno dei cambiamenti più importanti con cui il mondo del lavoro si è misurato nei mesi scorsi. E’ destinato a restare in campo dopo l’emergenza, e comunque anche le attuali misure del governo, che lo estendono per fronteggiare la seconda ondata della pandemia, ne rendono più cogente l’attualità e il bisogno di regolazione.
Ha ragione Michel Martone, curatore del volume ‘Il Lavoro da remoto’ (LaTribuna Editore), quando con giustificata enfasi rileva come quello dei mesi scorsi – e probabilmente nei mesi a venire – sia da considerare come il più grande evento di mobilità collettiva del terzo millennio.
Tutti noi, che abbiamo la fortuna di lavorare in occupazioni intellettuali – o comunque, come si dice, ‘remotizzabili’ -, abbiamo potuto partecipare nel pieno della Pandemia alle esperienze, di vario di tipo, in cui si è sostanziato il lavoro a distanza. E ne abbiamo potuto saggiare tanto le opportunità da promuovere, quanto alcuni limiti che andrebbero tenuti sotto controllo.
Possiamo considerare questo testo come un instant book che descrive e prova a fornire una cornice ad un processo di sommovimento del lavoro mentre è ancora in corso, con l’obiettivo, come recita il sottotitolo, di gettare le basi ‘per una riforma dello smart working oltre l’emergenza’. Al libro, che si avvale di una ampia e brillante introduzione del curatore, hanno partecipato alcuni tra i principali studiosi del fenomeno, che militano in discipline diverse, giuristi sociologi ed economisti: cosa che rappresenta sicuramente un ulteriore motivo di ricchezza di questa tempestiva pubblicazione.
Il punto di partenza di queste analisi e proposte appare sicuramente condivisibile: si tratta di favorire il passaggio ad un quadro di regole, legali e contrattuali, di tipo sistematico e in grado di istituzionalizzare queste prassi in modo duraturo in tempi normali e non solo sull’onda della necessità (che comunque persiste).
La legislazione di emergenza è stata sicuramente utile, ma adesso bisogna puntare a dare continuità e certezze al lavoro da remoto: in modo che possa diventare pienamente smart working, caratterizzato da diritti e obblighi tanto per i datori di lavoro che per i lavoratori. Nella logica di aumentare le possibilità di un mutuo beneficio, tale da consentire ai lavoratori di operare in condizioni di maggiore benessere organizzativo e alle imprese e amministrazioni di ottenere prestazioni e risultati adeguati e in linea con le loro necessità.
Come emerge in diversi contributi del volume, le esperienze degli scorsi mesi hanno accelerato un passaggio storico. Non consistente solo nell’uso massivo e dominante delle tecnologie di connessione, aspetto ovviamente importante e non scontato. Ma proprio in direzione della piena affermazione di una logica organizzativa e regolativa di stampo chiaramente post-fordista, nella quale il risultato tende a prevalere in modo spiccato rispetto ad altre modalità di strutturazione della prestazione lavorativa.
Ecco perché serve la contrattazione, e in modo particolare la contrattazione da vicino come ci ricordano Bentivogli e Zilio Grandi. Ciò non vuol dire che non siano anche necessarie regole-cornice di carattere generale, che implicano però al più una legge snella, tale da razionalizzare l’eterogeneità e confusione del quadro esistente, rilevato da diversi contributi di questo volume. Questa esigenza, nello stesso tempo, non esclude che le due stesse parti sociali possano procedere ad una regolamentazione minima di carattere intersettoriale, la quale potrebbe essere affidata ad un Accordo interconfederale. Ma gran parte degli studi ed interventi contenuti nel volume ribadiscono la necessità di dare certezze agli attori e dunque di intervenire favorendo l’istituzionalizzazione e per così dire la normalizzazione del fenomeno.
In questa direzione viene sottolineata l’importanza dell’accesso universale alle reti e ai dispositivi tecnologici, in modo da consentire a tutti di partecipare pienamente e con soddisfazione alle attività da remoto, per la parte, più o meno ampia che sia, che esse occuperanno a regime. In questo senso nel volume – chiaramente animato da posizioni di grande sostegno al fenomeno – circola forse una sottovalutazione dei dualismi che si sono manifestati nel vivo di queste esperienze: tra quanti hanno potuto lavorare con mezzi aziendali e reti adeguate e tanti (specie nel settore pubblico) che hanno goduto di minori opportunità; tra coloro che hanno potuto avere a disposizione, accanto alle reti, a spazi confortevoli e coloro che invece si sono trovati in condizioni di maggiore disagio. In questo senso cominciano a circolare studi e ricerche sul campo che ci consentono di leggere meglio – dati ed informazioni empiriche alla mano – tanto la varietà positiva che alcune delle strozzature esistenti. In effetti i tanti docenti che intervengono in questo testo non parlano – a quanto mi sembra – della loro esperienza sul campo di lezioni e di didattica a distanza: le quali forse non rientrano nella tipologia dello smart working ‘classico’, ma che, almeno per la scuola, i sindacati vorrebbero contrattualizzare. Si è trattato di un massiccio riposizionamento, avvenuto nelle scuole e nelle Università, che ha mostrato una forte generosità collettiva, ma anche alcune incongruenze e criticità. In uno studio recente, relativo alle scuole, si può vedere come tra i paradossi indotti da questa riconversione necessitata sia da annoverare quello di un incremento dei carichi di lavoro: un dato imprevisto che ha riguardato la maggioranza degli insegnanti. Ha ragione Michel Martone nel sottolineare come le barriere classiche – costruite nel Lavoro novecentesco da lui evocato – tra vita lavorativa e vita privata sono saltate o sono divenute più evanescenti. E il problema non consiste ovviamente nel ricrearle, ma nell’individuare uno zoccolo di diritti/opportunità a disposizione di ciascun lavoratore, in modo da proteggerlo – se lo desidera – dalla pervasività degli impegni lavorativi e dell’obbligo di connessione.
Uno dei temi importanti riguarda il grado di soddisfazione dei lavoratori. A questo riguardo non disponiamo di informazioni incontrovertibili, però possiamo supporre che sia generalmente elevato, anche quando il lavoro a distanza imponga ritmi carichi e sconfinamenti rispetto alle attività standard. Gli interventi immaginati in questo testo debbono essere tali da incidere proprio sulla qualità delle prestazioni: infatti se queste sono comunque dotate di contenuti che i lavoratori considerano importanti (e in cui sono coinvolti) ne derivano quasi sicuramente potenti incentivi verso il lavoro a distanza e verso l’impegno profuso dai diretti interessati.
Una delle zone grigie su cui il volume insiste, mediante diversi contributi (come quelli di Esposito e Leonardi per esempio), riguarda il pubblico impiego. Qui prevale, e sembra prevalere anche nell’ultimo DPCM, una logica meramente quantitativa : relativa alla percentuale delle persone che debbono essere impegnate nello smart working. Una logica meno attenta rispetto agli altri settori produttivi ad indicare anche il ‘come’: le misure organizzative che consentano di mantenere produttività e risultati ad un livello accettabile (e coerente con le aspettative dei cittadini-utenti). Un vuoto che andrebbe colmato, e sarebbe preferibile lo facesse la contrattazione: nonostante i sindacati tendano a loro volta, e specularmente, a fornire una lettura riduttiva della questione, insistendo in modo prioritario sul tema della garanzie e dei limiti nei confronti delle prassi di lavoro agile.
Tra i dualismi che vengono stressati da queste esperienze torna in campo quello, mai superato, che investe le differenze di genere. La conciliazione tra vita e lavoro non è mai stata semplice, è divenuta più ardua durante il lockdown a causa della presenza contemporanea in famiglia di lavoratori e studenti, e resta problematica anche in prospettiva. In effetti diverse indagini hanno sin qui evidenziato come il carico familiare abbia pesato in modo particolare sulle donne, appesantendo nel contempo anche la loro attività lavorativa. Alcuni dei pezzi contenuti nel volume, come in particolare quello di Martone, dedicano giustamente attenzione non solo alle misure passive (congedi parentali classici), ma anche a quelle più attive che possono promuovere una più equilibrata ed innovativa gestione dei carichi familiari.
Insomma nel volume troviamo un catalogo pressoché completo delle nuove frontiere organizzative e delle implicazioni conseguenti, in particolare per gli attori delle relazioni industriali, indotte dalla massificazione del lavoro da remoto. Come l’interessante sguardo sulle trattative a distanza (Saracino: il negoziato sindacale da remoto) e sulla morfologia in evoluzione degli stessi conflitti collettivi (Ferrari).
Un catalogo utile per studiosi ed operatori: sembra sia proprio arrivato il momento per più appropriati interventi di policy.
Mimmo Carrieri