L’intreccio si infittisce. Se si trattasse di uno degli episodi di cronaca nera prediletti dall’informazione nei mesi estivi, questa potrebbe essere una buona sintesi degli avvenimenti accaduti nel giro di poche ore, tra giovedì 10 e venerdì 11 luglio. Purtroppo, però, non è di un giallo balneare che stiamo parlando, ma della vicenda più intricata che, a memoria d’uomo, abbia mai agitato la realtà industriale del nostro paese: quella dell’Ilva di Taranto.
Mettere in fila gli eventi e cercare di dar loro un senso è dunque difficile. Cerchiamo di farlo a partire dal Consiglio dei ministri la cui riunione, programmata per la giornata di giovedì 10 luglio, è iniziata solo dopo le 18:00. Provvedimenti vari erano attesi da questo incontro proprio in merito al grande centro siderurgico tarantino. Ma, come vedremo, tali attese sono andate in parte deluse.
A riunione finita, si è saputo che il Governo ha varato l’ennesimo decreto salva-Ilva, che contiene un’espressione importante, ancorché incomprensibile ai più: “prededuzione” o, secondo altre versioni, “prededucibilità”. Di che cosa si tratta? Vediamo. Da mesi si parlava di un cosiddetto prestito-ponte, ovvero di crediti erogati all’Ilva dal sistema bancario e volti ad assicurare qualche mese di vita al colosso siderurgico in attesa degli eventi. Eventi che, nell’ipotesi più accreditata, dovrebbero consistere nell’arrivo di un grosso compratore (tra i nomi più gettonati, quello del gruppo franco-indiano Arcelor-Mittal).
L’idea del prestito-ponte era considerata generalmente in modo positivo. Solo che appariva più facile a dirsi che a farsi. Infatti, in tempi di restringimento del credito, è poco probabile che qualche banca, ancorché robusta, si azzardi a erogare prestiti a un’impresa grossa e malmessa come l’Ilva. Ma ecco l’idea del decreto ad hoc. Un provvedimento, quello messo a punto ieri a Palazzo Chigi, che, in sostanza, trasforma le banche erogatrici di tali prestiti in creditori privilegiati in caso di default della stessa Ilva. Insomma, un provvedimento che va incontro alle richieste delle banche, creando per loro una sorta di corsia preferenziale in caso di fallimento.
E veniamo adesso a ciò che, invece, non è successo. Prima della riunione di giovedì sera, si era vociferato che l’Esecutivo potesse inserire nel decreto misure volte a rendere disponibili per il Commissario straordinario, onde consentirgli di portare avanti le necessarie opere di ambientalizzazione, il capitale dei Riva sequestrato a suo tempo dalla magistratura. Capitale il cui ammontare è tutt’altro che indifferente, trattandosi di una cifra di circa 1,8 miliardi. Queste voci, però, non si sono affatto concretizzate, pare per opposizione del ministro della Giustizia, il pidiessino Orlando.
Un’altra misura di cui si era parlato prima della riunione del Governo, e di cui non c’è alcun riscontro nel testo approvato, era quella relativa all’ampliamento dei poteri di cui è investito il vice Commissario incaricato di seguire le problematiche ambientali connesse al risanamento dell’Ilva. Ma qui pare che sia stato il capo del Governo, Renzi, ad opporsi a tale ipotizzata misura, sostenendo che sia meglio mantenere concentrati i poteri operativi nella figura del Commissario straordinario, (un incarico cui Piero Gnudi è stato recentemente nominato proprio dall’attuale Governo). Solo che, in questo caso, un non-fatto si è trasformato in un accadimento reale, peraltro di segno opposto. Infatti, una volta informato degli esiti della riunione di Palazzo Chigi, l’attuale vice Commissario, l’ex ministro Edo Ronchi, si è dimesso.
In serata, però, i ministri dello Sviluppo Economico, Federica Guidi, e dell’Ambiente, Gian Luigi Galletti, hanno teso a rassicurare l’opinione pubblica con una nota congiunta in cui affermano che per il Governo “il risanamento ambientale dell’Ilva è un’assoluta priorità sociale ed economica”, nonché “uno strumento strategico per il rilancio dell’Azienda”.
Assai meno ottimistala Fiomche – per bocca di Rosario Rappa e Gianni Venturi, responsabili siderurgia del sindacato dei metalmeccanici Cgil – ha affermato, il giorno dopo, che il decreto governativo è “decisamente lontano dalle esigenze, sempre più urgenti, di dare una risposta in grado di affrontare l’insieme dei problemi strategici, finanziari e produttivi” dell’Ilva. Aggiungendo che il cosiddetto “sblocco” del prestito-ponte rappresenta solo “una boccata d’ossigeno di brevissima durata”.
A rendere ancora più fosco il quadro, sta il fatto che la famiglia Riva, in settimana, ha presentato al Tar del Lazio dei ricorsi relativi sia alle disposizioni contenute nell’Aia (Autorizzazione integrata ambientale), sia alle normative che hanno con sentito il Commissariamento dell’Ilva. Ultima pennellata: il Pm di Milano, Stefano Civardi, ha chiesto una condanna a 5 anni e 4 mesi per Fabio Riva (uno dei figli del capostipite Emilio), imputato di associazione per delinquere e truffa in uno dei vari procedimento giudiziari aperti contro la famiglia (in questo caso, si tratta di una presunta truffa ai danni dello Stato volta a far ottenere al gruppo Riva contributi statali non dovuti).
Insomma, come abbiamo detto, l’intreccio si infittisce, ma non sembra promettere nulla di buono. Nel senso che, evidentemente, governare una vicenda così complessa è maledettamente difficile anche per un Governo che, come quello guidato da Matteo Renzi, ha fatto del dinamismo un mantra.
Un insieme intricato di norme divergenti e poteri in conflitto è certo una delle cause di fondo di questa rinnovata difficoltà. Ma ci permettiamo di osservare che, sulla vicenda, pesa anche una ormai pluriennale assenza di una visione d’insieme dei problemi del settore siderurgico, un tempo uno dei punti di forza del sistema industriale italiano.
Intanto, per mercoledì 16 è stato messo in calendario un incontro in cui i sindacati torneranno ad esternare al Governo le loro preoccupazioni per le sorti del più grande centro siderurgico del nostro paese.
@Fernando_Liuzzi