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Inflazione, il secondo clamoroso errore della Bce (dopo 12 anni)

Maurizio Ricci
Novembre02/ 2023

Gli americani sono più bravi? Il dubbio (ricorrente, peraltro) viene a guardare gli ultimi dati dell’economia. Negli Usa, romba, con il prodotto interno lordo cresciuto appena meno di uno straordinario 5 per cento, alla faccia delle incertezze della situazione mondiale. Nell’eurozona, invece, affonda: -0,1 per cento il Pil, annuncio di un quarto trimestre di recessione.

Tecnicamente, non c’è motivo di stupirsi. Le economie moderne sono spinte soprattutto dai consumi. E i consumatori americani spendono e spandono: l’aumento dei consumi sul 2022, al netto dell’inflazione, è del 4 per cento. Al contrario, in Europa, i consumi reali pro capite sono stati sotto zero per tutta la prima metà dell’anno. Solo qualcuno pensa che l’euforia del consumatore americano sia destinata ad esaurirsi nei prossimi mesi, quando anche gli ultimi spiccioli dei risparmi accumulati, grazie anche ad una pioggia di sussidi pubblici, durante il lockdown saranno finiti. Ma nessuno dubita, invece, che l’apatia dei consumatori europei sia condannata a prolungarsi. Gli economisti della Bce calcolano che metà dei mille miliardi di euro di risparmi aggiuntivi, indotti dalla pandemia, sia finita nelle tasche del 20 per cento più ricco degli europei, ovvero quella parte della popolazione che, relativamente, spende una quota minore del suo reddito. E, infatti, gli stessi dati dicono che i ricchi europei hanno piuttosto investito quei soldi in titoli ed azioni.

Il risultato è che l’America, dove la Fed ha portato i tassi di interesse oltre il 5 per cento, vede una economia pimpante, mentre la stessa medicina, in Europa, dove la Bce è stata anche meno baldanzosa, fermandosi al 4 per cento, ha prodotto una recessione. Il motivo delle diverse traiettorie delle due maggiori economie occidentali è la diversa natura della crisi successiva alla pandemia.

In America, la fine delle paure e delle quarantene ha innescato una corsa a spendere i risparmi accumulati. Il boom di domanda ha fatto partire l’inflazione, che la banca centrale – come da manuale – ha affrontato alzando il costo del denaro per raffreddare l’economia. In Europa, invece, l’accendersi dell’inflazione nasceva da uno shock non dal lato della domanda, ma da quello dell’offerta. In particolare, nel campo dell’energia, con il picco dei prezzi del gas, vitale per le industrie, come per le famiglie. Ridotta all’osso, la differenza fra Usa ed eurozona è soprattutto negli approvigionamenti normali di gas e petrolio per gli americani e nei prezzi proibitivi che hanno dovuto sopportare, invece, gli europei. La conferma viene dagli ultimi dati sull’inflazione, crollata a picco, ad ottobre, in Europa al 2,9 per cento contro il 4,3 di settembre (in Italia addirittura all’1,8 per cento), mentre negli Usa staziona ancora vicino al 4 per cento. E’ il risultato diretto della normalizzazione dei prezzi dell’energia, metano in testa. E questo ci dice due cose.

La prima è che Fed e Bce hanno affrontato con gli stessi strumenti (brutali aumenti dei tassi di interesse) due situazioni molto diverse, anzi opposte: una inflazione da domanda negli Usa, da offerta in Europa. Ma mentre la manovra sui tassi funziona se c’è da frenare la domanda interna, ha effetto zero se c’è da frenare prezzi che derivano dall’estero, su cui non ha alcuna influenza.

La seconda è che il calo dell’inflazione appena registrato era aritmeticamente inevitabile e, dunque, prevedibile. I prezzi dell’energia si sono impennati, in Europa, giusto nell’ottobre dell’anno scorso, con un balzo del 10 per cento dell’inflazione. Dunque, finchè il confronto dell’indice dei prezzi con lo stesso mese del 2022, è avvenuto con i mesi prima di ottobre, lo scarto era enorme. Appena si è arrivati a confrontarsi con ottobre 2022, lo scarto è scomparso, perché da allora l’inflazione è visibilmente rallentata.

Insomma, la Bce avrebbe potuto risparmiarci la medicina dei tassi – almeno nelle dosi scelte – perché era prevedibile, sulla base dell’andamento dei prezzi dell’energia, che l’inflazione sarebbe rientrata nei ranghi da sola. A Francoforte, infatti, barano quando attribuiscono il calo in corso dell’inflazione alla politica monetaria. Ci vogliono 12-18 mesi perché un inasprimento dei tassi rialzi effettivamente i costi del credito e freni investimenti e consumi. Questo vuol dire che il grosso della stretta iniziata nell’estate del 2022 deve ancora arrivare all’economia. Ci arriverà nei prossimi mesi, a inflazione già domata e con una recessione già in atto: conteremo i cocci a primavera.

Se sarà così, sarà il secondo clamoroso errore della Bce, dopo quello di dodici anni fa, quando inasprì i tassi di interesse, mentre la grande crisi finanziaria stava per azzoppare l’economia, aprendo gli anni durissimi dell’austerità. Un errore identico, quasi certamente determinato dalla stessa ossessione ideologica di una cospicua fetta delle banche centrali che spinse al primo.

Maurizio Ricci

Maurizio Ricci

Giornalista