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Home - Rubriche - Poveri e ricchi - L’inflazione e l’arma a doppio taglio dei tassi d’interesse

L’inflazione e l’arma a doppio taglio dei tassi d’interesse

di Maurizio Ricci
31 Maggio 2022
in Poveri e ricchi, Analisi
Istat, vendite al dettaglio +0,1% a febbraio, -0,4% annuo

Si aspettava un più 7,7 per cento. Invece, in Europa, l’inflazione, a maggio, ha toccato in media l’8,1 per cento, come mai nell’era dell’euro. In Germania, siamo all’8,7 per cento, in Belgio quasi al 10, nell’Europa orientale ben oltre le due cifre. In Italia, l’inflazione è stata del 7,3 per cento (per rimanere nei conti Eurostat: quello dell’Istat – metodologia diversa – arriva solo al 6,9 per cento, comunque quasi un punto in più su aprile).

L’allarme risuona da ogni parte e il dibattito al vertice della Bce non è più se aumentare o no i tassi, ma di quanto, con i falchi del Nord che spingono per un salto non di un quarto, ma di mezzo punto, già a luglio. Forse, solo una rapida fine della guerra in Ucraina potrebbe fermare questa sfrenata corsa dei prezzi, che nessun Millennial ha mai nemmeno sognato. Chi pensava che il ritorno dell’inflazione fosse occasionale o temporaneo è stato insomma sorpreso e asfaltato. Tutta Europa, ormai, si prepara ad una gran frenata dell’economia, moltiplicata dall’aumento dei tassi di interesse. Ad ascoltare le voci che arrivano dal vertice della Bce, nel board è rimasto solo un italiano (Fabio Panetta) l’ultimo a predicare che bisogna aspettare i dati dell’estate prima di decidere quanto e come far salire il costo del denaro.

Perché il dubbio, in effetti, c’è. Ovvero il rischio che una brutale stretta dei tassi di interesse strozzi l’economia, quando, forse, non ce n’è più bisogno e i danni possono essere superiori ai benefici.

Detta in altro modo: non è che abbiamo raggiunto il picco dell’inflazione, ora destinata, comunque, a scendere? In America, questa impressione è già più che un dubbio. Poiché, però, l’origine dell’inflazione Usa è diversa dalla nostra, le correlazioni vanno accolte con cautela. In Europa, al contrario che negli Usa, l’inflazione ha un nome solo: energia, piuttosto che, come in America, troppa domanda. Il più 8,1 per cento di maggio equivale ad un più calmo 4,6 per cento, se togliamo dal conto l’aumento (più 40 per cento rispetto ad un anno fa) dei prezzi di gas e petrolio. E’ questo il terreno su cui si deciderà il futuro dell’inflazione europea. E qui, in effetti, con l’embargo sul petrolio russo in arrivo, insieme ai tagli sul metano di Gazprom entro fine anno, una ulteriore corsa dei prezzi sembra scontata.

O no? In realtà, sono gli stessi venti di recessione che spirano da ogni parte a far pensare che la domanda globale di energia – frenetica nei primi mesi di quest’anno – sia destinata a rallentare. L’Iea, l’Agenzia internazionale per l’energia, calcola che, grazie a questo rallentamento, il prezzo del greggio sia destinato a stabilizzarsi, anche se e quando verranno a mancare i barili russi.

In qualche modo, gli stessi mercati finanziari danno ragione all’Iea, mettendo in conto un vistoso rallentamento dell’inflazione (come appare dalle quotazioni dei titoli a reddito fisso)a partire dal prossimo autunno. Il punto è che, nonostante i molti timori, continua a non materializzarsi (almeno finora) la spirale prezzi-salari che segnalerebbe una inflazione fuori controllo, come una mongolfiera che abbia perso l’ormeggio. Il capo economista della Bce, Philip Lane, nota che gli stessi sindacati sembrano credere ad una inflazione che sta passando il picco. In Europa, gli aumenti salariali chiesti per quest’anno, sono più alti di quelli chiesti per il 2023: vicini al 3 per cento ora, al 2,5 per cento l’anno prossimo.

Lo stesso Lane ha sempre sostenuto che aumenti salariali del 3 per cento sono compatibili con una inflazione al 2 per cento, l’obiettivo proclamato della Bce. Ma, in realtà, attualmente siamo sotto. Il primo trimestre 2022 ha visto aumenti – nella media europea – del 2,8 per cento. Ma è, in effetti, una anomalia statistica. Il dato è, infatti, determinato dagli aumenti del 4,3 per cento, registrati nella più importante economia europea, quella tedesca. Gli aumenti tedeschi, però, sono in gran parte risultato di bonus una tantum. La stessa Bundesbank riconosce che, al netto dei bonus, gli aumenti salariali si fermano all’1,6 per cento. Sono cifre, dunque, che non spaventano nessuno. In Spagna e in Olanda, gli aumenti sono del 2,5 per cento. In Italia, siamo addirittura sotto l’1 per cento. Insomma, l’inflazione non sembra finora aver contagiato tutta l’economia. Sempre in Germania – il paese più suscettibile all’incubo inflazione – le stesse imprese non prevedono significativi aumenti dei loro listini nei prossimi mesi.

Prima di dire che l’inflazione è meno spaventosa di quanto appaia, bisognerà aspettare la prova della verità di questo autunno, quando – ancora in Germania – partiranno le grandi vertenze salariali, a cominciare da quelle dei metalmeccanici, e quando potremo valutare gli effetti sui prezzi dell’energia dello scontro con la Russia su gas e petrolio. Ma, nell’attesa, forse fasciarsi la testa è prematuro e usare con troppa foga – come piacerebbe ai falchi della Bce – il martello dei tassi di interesse potrebbe anche significare darselo sui piedi.

Maurizio Ricci

Maurizio Ricci

Maurizio Ricci

Giornalista

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