“L’Italia sta finalmente uscendo da una recessione lunga e profonda senza termine di paragone nella storia di cui l’Istat è stato testimone in questi 90 anni”. E’ quanto ha affermato il presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, nel suo intervento alla Camera in occasione del rapporto annuale dell’istituto.
La lunga e profonda crisi di questi anni ha fatto emergere “alcune criticità relative all’efficacia del sistema redistributivo e alla tenuta del sistema produttivo” ma allo stesso tempo tanti gli “elementi positivi” come la “maggiora sostenibilità del debito pubblico, la capacità competitiva sui mercati esteri, il miglioramento delle condizioni degli anziani” e le principali strategie che hanno “confermato la loro importanza, prime fra tutte il ruolo protettivo del capitale umano per i singoli individui e più ingenerale gli investimenti come chiave della ripresa”.
Ma dai dati che emergono dal rapporto è veramente lunga la strada da percorrere. In crescita la disuguaglianza sociale con un sistema di protezione sociale tra i meno efficaci in Europa. “In Italia la disuguaglianza nella distribuzione del reddito è aumentata da 0,40 a 0,51 tra il 1990 e il 2010: si tratta dell’incremento più alto tra i paesi per i quali sono disponibili i dati” afferma l’Istat.
“Tra quelli europei – spiega l’istituto di statistica – il sistema di protezione sociale del nostro paese è uno dei meno efficaci. Nel 2014 la quota di persone a rischio povertà si è ridotta di 5,3 punti dopo i trasferimenti (da 24,7% a 19,4%) a fronte di una riduzione media nell’Ue a 27 di 8,9 punti”.
“La differenza di genere – aggiunge – è una delle principali fonti di disuguaglianza nella distribuzione dei redditi lordi da lavoro sul mercato. Per gli uomini occupati è relativamente più facile che per le occupate raggiungere livelli più elevati di reddito”.
Ma anche le differenze “ di età, di titolo di studio e di posizione contrattuale (in particolare la stabilità dell’occupazione) sono le principali fonti della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi lordi da lavoro sul mercato”.
“Il vantaggio – spiega l’istituto di statistica – degli individui con status di partenza ‘alto’, ossia che a 14 anni vivevano in casa di proprietà e che avevano almeno un genitore con istruzione universitaria e professione manageriale, rispetto agli individui che invece provenivano da famiglie di status ‘basso’, ossia con genitori al più con istruzione e professione di livello basso e con casa in affitto, è più basso in Francia (37%) e in Danimarca (39%), mentre è molto forte nel Regno Unito (79%), in Italia (63%) e Spagna (51%)”.
Un altro problema da affrontare è l’invecchaimaento della popolazione. La popolazione italiana diminuisce e invecchia, e le nascite segnano un nuovo minimo storico. Al primo gennaio 2016 la stima è di 60,7 milioni di residenti, -139 mila sull’anno precedente, mentre gli over 64 sono 161,1 ogni 100 giovani con meno di 15 anni. Il nostro Paese è tra i più invecchiati al mondo, insieme a Giappone e Germania. E si segna il nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia per le nascite: nel 2015 sono state 488mila, 15mila in meno rispetto al 2014. Per il quinto anno consecutivo diminuisce la fecondità: solo 1,35 i figli per donna. I decessi hanno invece raggiunto quota 653mila unità, 54 mila in più dell’anno precedente (+9,1%).
Ben diversa – sottolinea Istat – la situazione novant’anni fa, quando la dinamica naturale, cioè il saldo fra nati e morti, era il traino per la crescita demografica del Paese. Tra il 1926 e il 1952 i residenti in Italia passano da 39 a 47,5 milioni, grazie alla forte riduzione della mortalità e alla natalità ancora molto elevata. La vita media aumenta infatti di circa 15 anni: da 52,1 a 67,9 anni per le donne e da 49,3 a 63,9 per gli uomini. E con la rinascita del Paese nel dopoguerra l’incremento naturale della popolazione trova nuovo impulso. Le nascite arrivano a superare il milione nel 1964: il baby boom fa crescere il numero medio di figli per donna dai circa 2,3 dei primi anni Cinquanta fino ai 2,70 del 1964.
Ma a partire dalla metà degli anni Settanta la capacità di crescita demografica del Paese si attenua molto, tanto che al censimento del 2001 l’ammontare dei residenti in Italia è poco al di sotto dei 57 milioni rispetto ai 56,5 milioni del 1981. Dagli anni 2000 la popolazione cresce in modo più sostenuto ma solo grazie ai flussi migratori dall’estero che si fanno sempre più consistenti. Al primo gennaio 2016 i cittadini italiani residenti sono 55,6 milioni, i cittadini stranieri 5,54 milioni, l’ 8,3% della popolazione totale.
Anche per quanto riguarda la situazione dei giovani in Italia la situazione non è delle più rosee. Laurearsi non aiuta più a trovare lavoro e per i giovani cercare un’occupazione è sempre più difficile. Durante la presentazione del rapporto annuale presso la camera l’Istat ha sottolineato che “il vantaggio occupazionale conquistato dalle generazioni più anziane con l’investimento in istruzione non coinvolge quelle più giovani, particolarmente penalizzate dalla crisi: il tasso di occupazione di un laureato di 30-34 anni dal 79,5% nel 2005 cade al 73,7% dieci anni dopo”.
“Nel 2015 – spiega l’istituto di statistica – a tre anni dal conseguimento del titolo, risulta occupato il 72% dei laureati (77,1% nel 1991) e il 53,2% ha trovato un’occupazione ottimale, ossia caratterizzata da un contratto standard, altamente qualificata e di durata medio-lunga”.
“Importanti cambiamenti tra le generazioni – afferma l’Istat – hanno riguardato il legame tra istruzione e primo lavoro (tipico o atipico). Cresce la quota di individui in fase di istruzione e senza esperienza di lavoro entro i 20 anni d’età: da 22,5% a 27% per gli uomini nati negli anni Cinquanta e Settanta, da 17,8% a 32,8% per le donne delle stesse generazioni”. Al 30esimo compleanno, “l’assenza di un’esperienza di lavoro si riduce sensibilmente tra le donne, dal 31,8%, delle nate negli anni Cinquanta, al 24,2% nate negli anni Settanta, contro l’8% degli uomini di entrambe le generazioni”.
“L’istruzione – aggiunge però l’istituto di statistica – si conferma paracadute nei tempi di crisi. Il calo del tasso di occupazione è stato meno sensibile per i laureati, da 78,5% del 2008 a 76,3% del 2015, e più deciso per chi ha al massimo la licenzia media, da 46% a 42,4%, o un diploma, da 67,9 a 62,9%”. Tuttavia, “la percentuale di sovraistruiti, ovvero i lavoratori che svolgono una professione per cui è richiesto un titolo di studio inferiore, è passata da 18,9% a 23,5%”.
Inoltre, la generazione del millennio made in Italy resta più a lungo a casa con i genitori e posticipa le classiche tappe per diventare adulti, anche se le femmine si emancipano prima: nel 2015 vive ancora in famiglia il 70,1% dei ragazzi di 25-29 anni e il 54,7% delle ragazze. Tra i motivi principali gli studi sempre più lunghi, il precariato e la difficoltà di trovare lavoro. Ma tutte le tappe generazionali sono posticipate: ci si sposa o si convive più tardi, si fanno figli più tardi e si diventa nonni più tardi.
Il Rapporto Istat 2016 evidenzia infatti: le principali tappe verso la vita adulta sono sempre più posticipate passando dalla generazione della ricostruzione, ossia quella dei nati fra il 1926 e il 1945, alla generazione di transizione, nati negli anni Sessanta e Settanta. Lo dimostra il fatto che aveva vissuto un evento familiare prima del venticinquesimo compleanno – come la prima unione, il primo matrimonio, il primo figlio – fino al 75% delle nate negli anni Quaranta e Cinquanta, il 56,5% di quelle che hanno visto la luce negli anni Sessanta e il 46,6% di quelle degli anni Settanta.
Invece nel 2015 vive ancora in famiglia con il ruolo di figlio o figlia il 70,1% dei ragazzi di 25-29 anni e il 54,7% delle coetanee, la cosiddetta generazione del millennio, percentuali in decisa crescita rispetto a venti anni prima, rispettivamente 62,8% e 39,8%. “La prolungata permanenza dei giovani nella famiglia di origine – sottolinea l’Istat – è dovuta a molteplici fattori, tra cui l’aumento diffuso della scolarizzazione e l’allungamento dei tempi formativi, le difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro e la condizione di precarietà, gli ostacoli a trovare un’abitazione”.
E la posticipazione riguarda tutte le tappe del ciclo di vita: ad esempio, è diventata nonna entro il cinquantacinquesimo compleanno il 38,2% delle nate prima del 1940 contro il 30% delle nate nei primi anni Cinquanta. Sul fronte maschile, i nonni entro i 60 anni sono il 38,7% fra i nati prima del 1940 e il 33,1% tra i nati del periodo 1945-49. In media, si diventa nonni a 54,8 anni. Ma anche se si diventa nonni più tardi e non si vive più sotto lo stesso tetto i rapporti tra nonni e nipoti rimangono ben saldi nel tempo: cresce anzi il ruolo attivo dei nonni: l’affidamento dei nipoti fino a 13 anni li coinvolge nell’86,9% dei casi.
Rappresentano un punto di forza che mitiga la portata del “degiovanimento”, cioè la progressiva erosione nel nostro paese dei contingenti delle nuove generazioni, ambiscono a ottenere la cittadinanza e, al di là dell’aspetto formale, il 38% circa degli stranieri under18 si sente italiano a tutti gli effetti. Ma l’immagine che emerge dal rapporto annuale dell’Istat, è che le seconde generazioni di immigrati sono sospese tra diverse culture e appartenenze. Tra i ragazzi stranieri che frequentano le scuole superiori, la quota di coloro che si sentono italiani sfiora il 38%, il 33% si sente straniero, mentre il 29% preferisce non rispondere alla domanda.
Le seconde generazioni seguono, così come gli adulti, modelli diversi di inserimento sociale. Alcune collettività, come quella romena, sono molto aperte all’interazione con gli italiani e inclini ad assimilare usi e costumi; altre comunità, come quella cinese – più chiuse alla cultura nostrana e alle relazioni con gli italiani – si attestano su modelli di tipo pluralista.
In ogni caso per molti ragazzi stranieri l’Italia non è il paese in cui vogliono vivere da grandi, il 46,5% immagina la propria vita da adulto in un altro paese, una percentuale poco sopra a quella rilevata per gli italiani (42,6).
Gli atteggiamenti di apertura nei confronti della cultura italiana e le relazioni con amici italiani contribuiscono molto al radicamento sul territorio; va però segnalato che la più elevata propensione a vivere in Italia da grandi si riscontra fra i ragazzi cinesi, nonostante i contatti meno frequenti con gli italiani.
Sulla voglia di trasferirsi all’estero, i giovani immigrati sono in sintonia con i ragazzi italiani. Le generazioni del millennio made in Italy sono a pieno titolo cosmopolite, anche per questo sono disponibili a emigrare, magari temporaneamente. Non a caso sul desiderio di vivere all’estero da grandi le differenze fra ragazzi di origine straniera e italiani non sono così importanti, 46,5% i primi e 42,6% i secondi. Si tratta di percentuali molto elevate che confermano quanto sia cambiata fra le nuove generazioni la percezione dello spostamento all’estero rispetto al passato.