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Il Diario del Lavoro

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Home - Approfondimenti - Analisi - Se e quanta teoria (o ideologia) è necessaria all’azione sindacale?

Se e quanta teoria (o ideologia) è necessaria all’azione sindacale?

di Paolo Feltrin
18 Dicembre 2019
in Analisi

Premessa

Capita sempre più spesso che i sindacalisti non in attività si dedichino, a differenza dei decenni passati, alla riflessione critica sullo stato delle cose passate e presenti, alimentando il sospetto che questo piccolo segno faccia parte del “cambio d’epoca demografico” nel quale siamo immersi.    L’ultimo libro di Luigi Agostini, già in segreteria nazionale  della Fiom e della Cgil, è un curioso  patchwork, composto in larga parte di saggi e articoli pubblicati in precedenza su riviste, suddivisi in quattro parti, a loro volta accompagnate dagli Interventi di alcuni compagni di strada di lunga data (M. Agostinelli, P. Cacciari, D. Campagnoli, F. Crucianelli, M. Malerba, G. Marchetto, M. Mezza).

Il volume contiene analisi  sulla sinistra,  sul ruolo dell’automazione e dell’information tecnology nelle trasformazioni del rapporto capitale-lavoro, ipotesi di ricerca  sul consumerismo e le nuove frontiere del conflitto sociale, ricostruzioni  storiche delle vicende sindacali degli ultimi due decenni del  secolo scorso.  La varietà dei temi toccati spiega la necessità di aprire, già dentro il volume stesso,  al  confronto con altri esperti di ogni singolo settore, scelta rischiosa ma opportuna, anche se impone a chi scrive una drastica cernita delle questioni da discutere. In questa nota ci concentreremo in primo luogo  sulla necessità funzionale  della teoria per l’azione sindacale; poi sulla necessità di riflessione storica sugli anni ottanta del secolo scorso; infine, affronteremo il tema di quello che un tempo veniva denominato “progresso tecnico” e delle sue implicazioni per il lavoro.

 

1. La necessità funzionale  di teoria per l’azione sindacale

Il tono del volume di Agostini  ricorda curiosamente il carattere più stimolante dei Diari (1988-1994) di Bruno Trentin, pubblicati nel 2017 da Ediesse, ai quali fa riferimento il saggio più  lungo dell’intero volume (pp. 251-265).  Nelle  pagine dei Diari, sotto molti altri profili quantomeno controversi, il refrain di Trentin è costituito da un continuo appello alla necessità di un di più di teoria in grado di arricchire le strategie sindacali, accompagnato dal timore per un impoverimento dell’azione sindacale a solo scambio e negoziato. Il rischio denunciato da Agostini e Trentin  è ritratto come  una sorta di accomodamento borghese  delle classi dirigenti su di una placida e pacificata conduzione burocratica delle organizzazioni sindacali.

Perché questa insistenza? Deriva solo dalle provenienze culturali dei due sindacalisti, oppure abbiamo a che fare con qualcosa di più strutturale, di una necessità funzionale? Perché teoria, ideologia,  cultura –chiamiamole come si vuole- sono indispensabili per  il sindacalismo? La preoccupazione di entrambi gli autori -per altri versi agli antipodi, a volte in polemica esplicita e diretta, come si può leggere, ad esempio,  nei resoconti di “Rassegna Sindacale” ai tempi dell’accordo sulla scala mobile nel 1992- appare rivolta a contrastare l’appiattimento del mestiere sindacale su di un’aura mediocritas, priva di ambizione e di orizzonti di affrancamento sociale.

Si tratta di una critica più volte rivolta nel passato dal sindacalismo europeo a quello d’oltreoceano, definito un po’ spregiativamente bread and butter, sempre a rischio di degenerazioni, e di recente ritornato  agli onori della cronaca per le denunce di corruzione da parte di General Motors a Fca e per l’ultimo film di Scorsese sul caso di Jimmy Hoffa (1913-1975). Va ricordato tuttavia come molti studiosi, affascinati dalla varietà delle vicende sindacali americane, abbiano  sempre contestato questa immagine semplificata.  Anche se le differenze tra le due parti dell’oceano esistono eccome.  Per segnalarne le radicali diversità vale la pena  ricordare, ad esempio,  che Hoffa,  primo leader indiscusso della International Brotherhood of Teamsters,  fu   condannato nel 1964 a 15 anni di carcere per corruzione, poi, uscito di prigione nel 1971,   venne ucciso dalla mafia nel 1975. Fin qui cose a tutti note, forse meno conosciuto è il seguito. Nonostante le ombre di questa vicenda, il suo unico figlio James P. Hoffa, dopo aver lavorato come legale del sindacato dei teamsters, ne ha assunto la presidenza nel 1998 e tuttora la mantiene, dopo più di vent’anni, con un reddito  complessivo  annuo di circa  390.000 dollari (di per sé non così elevato rispetto agli standard di molte Union degli Stati Uniti). 

In Europa le cose sono andate in modo diverso. Ma, a differenza di quello che scrive Agostini, la vicenda storica del sindacalismo continentale non solo  precede l’epoca della socialdemocrazia -su cui è d’accordo- ma continua anche oltre di essa, cosa su cui mi pare sia meno d’accordo. In altri termini,  la storia del sindacalismo andrebbe nettamente distinta dalla storia della socialdemocrazia. Per un periodo si sono abbracciati e hanno camminato fianco a fianco, ma a ben vedere non si erano incrociati prima dell’avvento della socialdemocrazia novecentesca e forse non lo faranno dopo la crisi della socialdemocrazia, lungo  quel ventunesimo secolo del quale abbiamo già percorso i primi due decenni.

Il sindacalismo come forma organizzativa della tutela di chi lavora dimostra una straordinaria capacità camaleontica di adattamento, anche in “tempi difficili” e avversi come quelli attuali. Sopravvive, riemerge ovunque, anche dove meno te lo aspetti, in forme nuove, a volte inedite; costituisce dunque un’esperienza viva dell’attualità, non un cane morto del passato come molti sembrano pensare, anche se gli manca una teoria adeguata al suo nuovo modo di essere. Questo elemento di vitalità tuttavia si vede meglio solo quando ne vengono messe a fuoco alcune caratteristiche, non prive di elementi problematici. La prima riguarda la centralità del settore terziario, che impiega il 75% dei 23 milioni di occupati in questo apese. In altri paesi europei e negli Stati Uniti siamo già all’80-85% di occupazione terziaria. Dopo il terziario c’è l’industria, ma bisogna  ricordare come la manifattura in senso stretto (senza cioè l’edilizia) occupi appena 4 milioni circa di lavoratori. Questa mutata “composizione di classe” -per usare termini antichi- esprime domande di tutela che il sindacato italiano è stato in grado di intercettare attraverso una trasformazione implicita, mai dichiarata in modo palese, del suo sistema di offerta,  di cui è un sintomo  lo  iato evidente tra la retorica antica delle dichiarazioni ufficiali e una prassi quotidiana molto pragmatica. Potremmo dire che il sindacato resiste meglio di altri corpi intermedi in quanto “razzola bene, anche se predica male” quello che fa.

 

Di recente il mensile “Una città” ha pubblicato un’intervista a Elena Lattuada, segretario regionale della Cgil Lombardia, tutta dedicata al tema di come svolgere tutele sindacali in una società terziaria. Dal momento che normalmente si parla di imprese di piccole o piccolissime dimensioni, è inevitabile che le tutele  siano innanzitutto di tipo individuale, ovvero che la rappresentanza collettiva debba tradursi in beni e servizi di tipo individuale. Basta entrare in una sede sindacale: assistenza ad personam sul contratto nazionale, uffici vertenze, caf, patronati, uffici immigrati, ecc.  Questi sono la spina dorsale del sistema di offerta sindacale. In questo modo, tramite i cosiddetti servizi, in Lombardia, secondo l’intervista citata, la Cgil  si assicura ogni anno quasi il 45% del tesseramento. Dati analoghi valgono ovviamente per Cisl e Uil.

Si tratta di un cambio di pelle in parte inconsapevole, in parte frutto del  caso, ma se il sindacato oggi gode di (relativa) buona salute, sempre tenendo conto dei tempi difficili nei quali viviamo e del confronto con le altre esperienze sindacali, lo si deve ad alcune scelte preterintenzionali compiute in modo condiviso dai tre sindacati confederali negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, proprio nel momento di massima divaricazione delle strategie di Cgil, Cisl e Uil. Dopo la sconfitta alla Fiat nel 1980, la stagione dell’unità sindacale deperì rapidamente, sostituita da tre diverse prospettive politico-organizzative: a) la linea di difesa a oltranza della scala mobile da parte di Bruno Trentin (Cgil),  poi integrata dalla teorizzazione della difesa antagonista dei diritti (individuali e) indisponibili di tutti i lavoratori, di cui il sindacato avrebbe dovuto diventare il tutore e il propugnatore; b) l’opzione della concertazione, dello scambio politico e del neocorporativismo proposta da Pierre Carniti (Cisl), con l’ambizione di farsi carico del ruolo politico del sindacato attraverso l’assunzione di responsabilità di governo delle società complesse; c) infine l’idea di Giorgio Benvenuto (Uil) di un sindacato che va oltre i confini corporativi del lavoro dipendente, a difesa non solo dei lavoratori, ma in grado di esercitare la tutela dei cittadini in tutti i mondi vitali in cui si trovano a vivere in condizione di subalternità o disagio.

Negli anni Ottanta queste tre opzioni strategiche si scontrarono aspramente. Tuttavia, al netto del contorno retorico e ideologico, vi erano abbozzi di “preveggenza” tanto nell’idea della tutela dei diritti di Trentin, quanto nell’opzione di un sindacalismo responsabile e governativo del Carniti seconda maniera, come pure nell’ipotesi di sindacato dei cittadini avanzata da Benvenuto. La curiosa mistura di queste tre idee ha dato origine ad una sensibilità tutta italiana per i servizi individuali, intesi come un possibile approdo, un riparo nel quale mettere in sicurezza le organizzazioni sindacali nei tempi duri che stavano arrivando. Nessuno dei tre aveva la più pallida idea di come sarebbero state concretamente interpretate le loro intuizioni, come nessuno dei tre aveva alcun presagio della durezza dei tempi nuovi in via di maturazione. La miscela generata in modo involontario trent’anni fa non ha equivalenti noti altrove nel mondo: tre sindacati nazionali, tutti e tre confederali, in tutto e per tutto simili tranne che per una blanda colorazione politica, formalmente divisi ma quasi sempre uniti, tutti e tre a svolgere (a Roma e sul territorio) più o meno le stesse identiche cose, ovvero contrattazione nazionale e aziendale, tutele individuali, difesa dei pensionati, servizi ai lavoratori e ai cittadini.

Molti altri sindacati in giro per il mondo ci invidiano questa tenuta organizzativa. E gli orizzonti di riscatto sociale e di protagonismo sociale che fine hanno fatto? Servono ancora?  Per Trentin e Agostini -come per tanti altri sindacalisti della stagione appena passata, si pensi a Carniti-  la tensione ideale,  indispensabile  per evitare decadimenti,  si alimentava di una continua  riflessione teorica sulle ragioni e sulle giustificazioni dell’esperienza sindacale (e del partito). Chiunque legga il volume di Agostini non può non convenire con questo tacito assunto della necessità della teoria per l’azione collettiva, per il sindacato in primis. La teoria  è dunque utile e necessaria pena rischi di appiattimento amministrativo. Ma di quanta teoria necessita il sindacato? Posta in altro  modo: quali sono i limiti di quelle che Gian Primo Cella chiama le culture sindacali quando non vengono aggiornate e alimentate da adeguate riflessioni sul cambiamento sociale?

 

2. A proposito di storia.  La centralità degli anni ottanta

Le pagine sui diari di Trentin offrono a Agostini  anche lo spunto  per aprire uno squarcio sulla dialettica interna al gruppo dirigente della Cgil in  anni cruciali, gli anni Ottanta, ancora in attesa di una adeguata sistemazione storiografica.  L’interrogativo è come si fa a tenere unito un gruppo dirigente che si va dividendo lungo traiettorie tra loro incompatibili,  senza più l’ombrello protettore del “partito amico”. Questo mi pare il dramma di Trentin: vede il baratro in cui la “sua” Cgil sta precipitando, tenta la mossa del cavallo immaginando di poterlo evitare, la strategia dei diritti, il sindacato-programma,  ma l’astrattezza delle proposte amplifica i dissensi interni al gruppo dirigente centrale  invece di smussarli. Agostini giustamente individua il punto di avvio del circolo vizioso nella “defenestrazione” di Pizzinato, i cui retroscena, compresi gli antecedenti della fase finale della segreteria di Luciano Lama, sono ancora tutti da scrivere. La mia impressione è che il “male oscuro” della Cgil,  di cui parla Trentin in più sedi e su cui riflette anche Agostini, si sia alimentato del groviglio di problemi non risolti in quel peccato originale successorio tra 1985 e 1986. Le stesse traversie post-1989, a me pare di capire, avrebbero potuto avere altro svolgimento se si fossero sciolti i grumi strategici  irrisolti lasciati in sospeso in occasione  dell’avvicendamento a Lama, ovvero il necessario chiarimento strategico (teorico) dopo la sconfitta del 1985 nel referendum sulla scala mobile.

Non a caso in tutti gli anni della segreteria Trentin la scala mobile rimane come perenne convitato di pietra, in buona compagnia con il clamoroso errore di strategia che ha portato nel 1980 l’intero sindacato italiano  nel vicolo cieco della più grande sconfitta operaia del secolo. E a poco serve esaltare  quell’accordo torinese scrivendo che è stata una vittoria  incompresa,  come fa in modo stupefacente Pio Galli in un  suo libro su Fiat 1980. Sindrome della sconfitta (Ediesse, 1994). L’ipotesi di lavoro, dopo la lettura di quanto scrive Agostini,   è che la  mancata riflessione strategica sui cambiamenti dei primi anni ottanta -sconfitta alla Fiat nel 1980; accordo separato di San Valentino nel 1984; disfatta nel referendum sulla scala mobile nel 1985-  condussero la Cgil totalmente disarmata all’appuntamento fatale del 1992, quando inevitabilmente tutti i nodi arrivarono al pettine.

Al contrario di quanto scrive Agostini, nello scontro interno al palazzo di Corso d’Italia n. 25, come  sul Titanic in corsa verso il disastro,  incapaci di confrontarsi con la realtà, si diedero battaglia i fantasmi di due opposte ideologie novecentesche, ipostatizzate intorno alle parole d’ordine del “sindacato dei diritti” (Trentin) e della “scala mobile non si tocca” come linea Maginot su cui resistere senza se senza ma (Agostini). La sua tesi ancora oggi è che la scala mobile  “funzionava come una aurea catena (…)che teneva insieme un blocco sociale formidabile: nessun assetto contrattuale avrebbe potuto sostituire, specie nella prospettiva prevedibile, tale catena” (p. 260), senza avvertire che   quel blocco sociale  era stato davvero unificato dalla scala mobile negli anni settanta, ma non lo era più da tempo nei primi anni novanta, dopo la disintegrazione degli anni ottanta, sulla quale era mancata -come già abbiamo ricordato- una adeguata riflessione teorica.

 

La controprova? Se davvero fosse stato così solido lo schieramento  sociale a favore della scala mobile non si sarebbe infranto come neve al sole di fronte alla minaccia di dimissioni di Amato il 31 luglio 1992. Insomma, la cancellazione della scala  mobile non produsse la frantumazione del fronte sociale tanto caro a Agostini,  ma semplicemente ne prendeva  atto e lo certificava in termini di decreto legislativo.

 

3. Il  “progresso tecnico” e le sue implicazioni per il lavoro

Automazione e tecnologie digitali sono un altro dei temi approfonditi dal libro, spesso portando ad esempio la Fiat, come  già  era stato fatto in un precedente volume, Il pipistrello di La Fontaine (Ediesse, 2014). Quel che a me pare sfugga all’autore sono gli aspetti positivi della rivoluzione tecnologica in corso, invece unilateralmente ridotta a nuovo dominio dell’algoritmo (p. 120 e ss.). Prendiamo di nuovo il caso della Fiat. Se l’azienda investe così tante risorse in complessi modelli di organizzazione dei processi produttivi del tipo del Wcm essa  necessita di un clima interno positivo.  Il benessere organizzativo -detta in modo più diretto: il consenso operaio- rappresenta una risorsa strategica per l’azienda, la  precondizione per  il raggiungimento degli obiettivi. Consenso e engagement sono risorse tanto più imprescindibili  nel settore dell’automotive, dove i margini di successo e la redditività aziendale discendono dalla capacità di minimizzare i costi di produzione,  le  inefficienze, gli errori di progettazione, i difetti,  la mancata qualità nei montaggi.

A me pare sfugga  ad Agostini quanto il “nuovo corso” della  Fiat, come  di tante altre aziende dove si applica in modo massiccio l’information tecnology  alle linee produttive, sia una strada obbligata ma allo stesso migliorativa del lavoro operaio. Lean production e just in time furono quarant’anni fa le prime due innovazioni organizzative che facevano intravedere  un modo diverso di guardare alla produzione  dell’auto e ai suoi protagonisti (fornitori, progettisti, programmatori, lavoratori, ecc.). Automation e strategic quality control sono oggi gli altri due assi che si aggiungono ai primi due. Chi entra in Audi,  in Bmw, in Jaguar o a Pomigliano vede ovunque uno scenario  molto simile: ambienti puliti, senza polvere-grassi-oli,  luminosi, silenziosi, in cui i lavoratori fanno moltissime operazioni di controllo,  a tablet o su postazione fissa o su carta. Più  i montaggi. In nessuna postazione, tuttavia, anche ad un’osservazione accurata, si intravedono i segni di grave fatica fisica, vero e proprio marchio di autenticità del lavoro  operaio  nella fabbrica otto-novecentesca.

In molti stabilimenti di punta dell’automotive mondiale  la catena è a pavimento, con   il lavoratore che si sposta assieme all’auto,  per poi scendere e tornare indietro finite le  operazioni previste; il lavoro è svolto in piccoli team con un minimo di autonomia organizzativa,  gli operai parlano tra loro e i ritmi di lavoro -almeno ad un osservatore esterno- non sembrano particolarmente  “tirati”. In più vi è un’attenzione spasmodica all’ergonomia e ai fattori di rischio, con l’obiettivo di ridurre al minimo le malattie professionali e gli incidenti sul lavoro: il ben noto  “incidenti zero”,  first pillar del Wcm. Perché lo fanno? Una prima risposta potrebbe essere questa: perché  l’automotive è il settore manifatturiero  più competitivo al mondo, con  bassi ritorni (unitari) sugli investimenti  e, di conseguenza, una spasmodica attenzione ai costi di produzione. Allo stesso tempo il consumatore, l’altra faccia del lavoratore –un tema su cui a ragione insiste Agostini- vede nell’automobile il primo o il secondo bene per importanza economica sul quale investire i propri risparmi, a seconda che la casa sia in affitto o in proprietà; pretende zero difetti e massima qualità (percepita); è sufficientemente avvertito  da non farsi ingannare più di tanto dalla pubblicità.

L’intereresse aziendale al coinvolgimento del lavoratore non ha bisogno di ulteriori motivazioni. Si riescono a fare prodotti  attraenti, con  costi di produzione contenuti, privi di difetti, solo adottando -almeno in occidente- strategie di engagement, di coinvolgimento e di consenso di chi quei prodotti li  deve mettere assieme.  L’obiezione ulteriore solleva il tema del cosiddetto  stress cognitivo, conseguente alle maggiori capacità intellettive richieste al lavoro operaio. Fatto indiscutibile, sottolineato dagli stessi lavoratori nelle risposte a tutte le  survey sull’argomento,  ma che dovrebbe costituire non un motivo di svalutazione, bensì di apprezzamento della nuova condizione operaia. Innanzitutto, da che mondo è mondo, meglio essere stanchi mentalmente che fisicamente: non a caso (quasi) mai si è visto un lavoratore intellettuale,  stressato, cambiare lavoro per andare a cercare ristoro in una catena di montaggio;  in secondo luogo,  sembra esservi una vena nascosta di discriminazione  implicita nella preoccupazione per il fatto che gli operai debbano usare un po’ più le loro facoltà intellettive sul posto di lavoro, quasi non ne fossero abilitati; e, infine, a me pare non venga colto il paradosso di chi si scaglia contro  due secoli di battaglie per il lavoro, condotte proprio contro l’abbrutimento fisico e in nome di una auspicata crescita della sua componente intellettuale.

Certo, tutto questo non è sufficiente in assenza di progressioni di carriera e di miglioramenti retributivi.  Agostini ne fa opportunamente cenno. Un’esile traccia di possibili risposte datoriali la si può rinvenire nella riscoperta del welfare aziendale, considerato fino a poco tempo fa un attrezzo desueto, reperto archeologico del paternalismo industriale dell’ottocento e del primo novecento. Dal nostro punto di vista, queste  politiche welfariste, programmaticamente non universaliste, il più possibile  localizzate sui posti di lavoro,  adottate  in ogni angolo del mondo nei punti più avanzati della nuova manifattura, potrebbero essere interpretate come un tentativo di motivare e fidelizzare i nuovi lavoratori  manual-cognitivi. Nella stessa direzione vanno tutte le forme di azionariato dei dipendenti, di  coinvolgimento in progetti di solidarietà a base aziendale, di riconoscimento dei diritti dei lavoratori in quanto cittadini in azienda affiliati a qualche gruppo a base etnica, religiosa, sessuale, sportiva, musicale, ecc. 

Abbiamo accennato alle politiche del personale per toccare un ultimo punto di discussione: il ruolo delle relazioni sindacali.  Come aveva già annunciato nel 2011 Michael  Piore,  le aziende scavalcano il sindacato e cercano il consenso diretto dei lavoratori. Si chiudono i dipartimenti e gli insegnamenti di “industrial relations”  a favore di quelli di “human resources”. Di nuovo, la rivoluzione delle imprese ad alto contenuto tecnologico sembra  fare da apripista ad un’epoca post-sindacale, nel doppio senso di un sindacalismo che scompare oppure, alternativamente, di un sindacalismo che cambia radicalmente pelle. Di qui la necessità di uno sforzo di ulteriore riflessione sui nuovo orizzonti dell’azione sindacale. Quanta teoria, allora? Molta, davvero molta di più di quanto se ne faccia ora, viene da dire. Su questo Agostini ha ragione da vendere anche se, con ogni probabiltà, al dunque ci troveremmo divisi sulla direzione di marcia da seguire.

 

di Paolo Feltrin

 

(in corso di pubblicazione su “Quaderni di rassegna sindacale”)

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