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Home - Approfondimenti - Analisi - Il futuro della contrattazione collettiva, tra il modello Chimici e il modello Marchionne

Il futuro della contrattazione collettiva, tra il modello Chimici e il modello Marchionne

di Giuliano Cazzola
23 Luglio 2018
in Analisi

La scorsa settimana è stato rinnovato il contratto collettivo nazionale del settore chimico-farmaceutico. Si tratta di un risultato ottenuto con ampio anticipo sulla scadenza del contratto, che conferma l’efficienza e la competitività di un settore caratterizzato da relazioni Industriali moderne e di qualità. I “chimici” sono sempre i primi ad aprire la stagione dei contratti: anche in questa occasione non vi sono stati scioperi nemmeno ‘’simbolici’’; il negoziato è durato un paio di giorni, senza dover ricorrere alla teatralità delle notti insonni. In verità – come è prassi di questa categoria ‘’illuminata’’ – Federchimica e i sindacati di categoria cominciano a confrontarsi prima ancora che sia pronta la piattaforma rivendicativa e prendono rispettivamente le misure delle reciproche disponibilità.

Storicamente il buon livello delle relazioni industriali di cui può vantarsi il settore ha rappresentato – per molto tempo – l’alternativa riformista ed unitaria rispetto alla radicalità del confronto nell’ambito della categoria dei metalmeccanici, la quale è stata – nei decenni trascorsi – protagonista anticipatrice delle più importanti innovazioni intervenute nella contrattazione collettiva del dopoguerra (dalla conquista della contrattazione aziendale all’inquadramento unico, dalle 150 ore ai diritti di partecipazione e consultazione previsti nella c.d. prima parte dei contratti).

Nella fattispecie, il rinnovo in questione è il primo che si realizza dopo l’accordo interconfederale (un po’ cerchiobottista)  del 9 marzo scorso, che dopo anni di stasi – talvolta rotta da polemiche e contrasti tra le stesse OOSS – del sistema delle relazioni industriali, ha tentato di giungere a una sintesi – sulla questione dell’adeguamento delle retribuzioni all’inflazione (il compito residuo e specifico tuttora riservato alla contrattazione nazionale) – che, soprattutto nell’ultima tornata di rinnovi, era approdata a soluzioni diverse, in particolare per i chimici ed i metalmeccanici. Per i primi, la scelta, nel contratto del 2016, di governare ex ante la dinamica inflattiva – ovvero individuata sulla base della previsione Istat e poi verificata e consuntivata – ha rafforzato il contratto nazionale, ampliando lo spazio dello scambio – come deve fare un contratto – rispetto ai metalmeccanici che invece optarono per recuperare l’inflazione ex post. Certo, i settori sono diversi, non solo per dimensioni delle imprese (le grandi sono dominanti nel chimico-farmaceutico mentre le PMI sono prevalenti in quello metalmeccanico) ma anche in ragione di andamenti diversi dei due settori, tanto che, in questi anni, l’industria metalmeccanica ha perso 1/3 della sua forza lavoro.

Come ha scritto un acuto osservatore qual è Dario Di Vico, sul Corriere della Sera, le parti sociali della categoria si sono premurate di risolvere al più presto i loro problemi, prima che si consolidi il nuovo quadro politico, del quale non si conoscono – ammesso che ve ne siano – le intenzioni, ma che potrebbe rivelarsi “capace di tutto”.

Nel quadro delle nuove regole confederali, l’accordo introduce importanti novità in ambito economico e normativo, mettendo al centro i temi della Responsabilità Sociale, della Formazione, della Produttività e Occupabilità e della Flessibilità, fornendo così alle imprese gli strumenti per essere promotrici e protagoniste del cambiamento, anche in relazione alle trasformazioni connesse con Industria 4.0. La domanda è: il governo giallo-verde potrà o vorrà implementare questo processo o il cambiamento preconizzato guarda soltanto all’indietro?

Per la parte economica, il contratto riconosce ai lavoratori un aumento del TEM (il Trattamento Economico Minimo, ovvero i minimi retributivi) di 97 euro, nel periodo di vigenza contrattuale che è stato allungato, in via transitoria, di sei mesi, ovvero fino a giugno 2022. A partire da questo rinnovo, il ruolo di ammortizzatore degli scostamenti inflattivi è affidato all’EDR (Elemento Distinto della Retribuzione), novità che permetterà di semplificare l’impatto delle verifiche annuali e dare certezza alle imprese e ai lavoratori. Alla scadenza del CCNL sarà, come si diceva prima, effettuata una verifica complessiva per garantire l’allineamento del trattamento minimo contrattuale all’inflazione reale.

Per quanto riguarda la parte normativa, gli interventi si sono focalizzati sull’ulteriore miglioramento della qualità delle relazioni Industriali, sulla promozione della produttività ed occupabilità, sul permanente investimento sui temi della Sicurezza, Salute e Ambiente e sulla valorizzazione e diffusione della formazione, in particolare per: 1) rispondere all’esigenza di attori sociali sempre più adeguati per una contrattazione aziendale di qualità, capace di cogliere le attuali sfide e per sviluppare relazioni industriali sempre più partecipative; 2) diffondere la cultura della Sicurezza, anche mediante moderni strumenti digitali; 3) aumentare ulteriormente l’attenzione nei confronti dei giovani, anche attivando percorsi di Alternanza Scuola-Lavoro; 4) agevolare l’innovazione organizzativa, la valorizzazione professionale e l’occupabilità, dando sempre più spazio alla contrattazione di secondo livello.

Il rinnovo dei chimici avviene contemporaneamente alla grande uscita di scena – per ragioni di salute – di Sergio Marchionne da Fca (quanti sono coloro che, se avessero un briciolo di onestà intellettuale, dovrebbero scusarsi con lui?), la cui gestione sarà ricordata anche per l’impatto della restart di Fiat sulle relazioni industriali e per l’uscita da Federmeccanica e da Confindustria. La linea di politica industriale portata avanti da Marchionne non sarebbe stata possibile senza quella radicale trasformazione degli schemi contrattuali che ha portato Fca ad avere una contrattazione collettiva autonoma, fuori dal contratto nazionale dei metalmeccanici, realizzando così il duplice obiettivo di un assetto – insieme – di prossimità, nel territorio, ed uniforme sul piano nazionale.

Avrebbe potuto fare di più il manager della Fiat-Fca? Certamente. Ma a lui interessava sistemare l’assetto delle relazioni industriali negli stabilimenti italiani di un gruppo sempre più multinazionale. Tutto sommato, conservava un occhio di riguardo e di affetto per il proprio Paese, purchè l’azienda fosse messa in condizione di produrre in modo competitivo. Il limite della svolta di Sergio Marchionne nell’ambito delle relazioni industriali sta proprio qui: aver pensato al gruppo in una visione mondiale, inclusiva degli stabilimenti siti da noi, e non al sistema Italia (di relazioni industriali e non solo). Sappiamo tutti che altri importanti complessi produttivi hanno seguito, sul piano della contrattazione, l’esempio di Fca. Su quelle esperienze è in vigore una sorta di embargo mediatico: lo stesso che si applicò agli stabilimenti Fca dopo la ristrutturazione. Una personalità come Marchionne sarebbe stata in grado di promuovere una diversa struttura della contrattazione, estendendo il modello con cui aveva riportato sugli scudi gli stabilimenti italiani. Ma forse aveva altri pensieri, doveva portare a compimento altri obiettivi, in un contesto globale in grande accelerata ed imprevedibile trasformazione. Che in Italia, allora, le parti sociali continuassero pure a “rammendare le solite vecchie calze”. Lui aveva provato a cambiare; ma si era accorto che il gioco non valeva la candela. O forse presagiva che gli sarebbe mancato il tempo.

L’eredità del caso Fiat è molto legata, comunque, al decentramento contrattuale, al peso che il secondo livello ha acquistato in virtù, anche, di misure incentivanti (vedi detassazione del salario di produttività introdotta strutturalmente dalla legge di stabilità 2016) che il sistema negoziale ha accolto con molto favore. Posto che la percentuale di aziende che effettuano della contrattazione di secondo livello nel settore chimico-farmaceutico è in linea con la media del settore industriale (circa 35%), l’originalità di cui questo settore è portatore, storicamente, è il peso che il primo livello continua a conservare. Ci sono, come si diceva, anche ragioni contingenti, ma c’è anche una forte cultura di cui il settore è permeato. È, certamente, un fattore molto positivo per il sistema le cui trasformazioni sono sempre più radicali. E la capacità di governarle farà la differenza.

Giuliano Cazzola

Giuliano Cazzola

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