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Home - Approfondimenti - L'Editoriale - Chi non studia è perduto, ma la Confindustria di Cuneo non lo sa

Chi non studia è perduto, ma la Confindustria di Cuneo non lo sa

di Nunzia Penelope
2 Febbraio 2018
in L'Editoriale

Chi non studia è perduto. Si può sintetizzare così  una ricerca di Enrico Moretti, docente a Berkeley e consigliere di Obama per il lavoro, argomento di cui e’ uno dei massimi esperti mondiali. Moretti  sostiene, o meglio dimostra, che i luoghi a più alto tasso di capitale umano sono anche quelli col migliore livello di produttività e di occupazione, alti salari e minori diseguaglianze. Dove prevalgono titoli di studio bassi, invece, ci sono anche bassa produttività, bassi salari, disoccupazione. I due esempi perfetti e opposti di questa tesi sono Seattle e Flint: la prima, ricca sede di aziende innovative come Microsoft e Amazon, vanta il 42% di laureati, mentre l’altra, dove solo il 12% ha frequentato il college, non ha retto la crisi del manifatturiero e oggi è una delle città più povere degli Usa.

La ricerca di Moretti ha fatto il giro del mondo, ma deve essere  rimasta del tutto ignota a Mauro Gola, presidente della Confindustria di Cuneo. Gola, il 28 gennaio scorso, ha scritto una lettera aperta alle famiglie del suo territorio per invitarle, in pratica, a non far studiare i propri figli. La tesi di Gola e’ esattamente opposta a quella di Moretti: alle imprese servono operai, le lauree sono inutili. Meglio una buona scuola professionale, e poi via, al lavoro. Gola spiega che le scelte della scuola superiore sono troppo spesso fatte ‘’dando più importanza ad aspetti emotivi e ideali’’ e tralasciando la realtà. La realtà, secondo Gola, e’ che le imprese non sanno che farsene di giovani cervelli: hanno bisogno di operai. I dati sembrerebbero dimostrarlo: dei 40 mila che lo scorso anno sono stati assunti nell’area di Cuneo, oltre la metà ha solo un diploma professionale. E tuttavia, dei quasi 4 mila laureati richiesti dalle imprese nella stessa area, oltre un terzo non e’ stato trovato.

Dunque? Cosa ci manca di più, operai o laureati? Dipende da cosa vogliamo per il nostro futuro, per il futuro dell’Italia. Negli Usa, avverte Moretti, si perdono ogni anno 380 mila posti operai, e non solo nell’industria tradizionale ma anche nell’HiTech. In entrambi i settori aumentano invece i posti ad alta scolarità. I posti di lavoro decisivi, in futuro, saranno sempre più per figure ad alta formazione: dunque, la prima politica industriale che si dovrebbe fare è investire sul capitale umano: lo Stato con la scuola, ma anche le stesse imprese.

Una tesi analoga e’ stata esposta dal Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il 26 gennaio scorso, per coincidenza proprio negli stessi giorni in cui Gola scriveva la sua bizzarra lettera-appello. Una delle ragioni per cui l’Italia non è riuscita a cogliere i benefici della globalizzazione e del progresso tecnologico, ha detto Visco, ha a che fare proprio col suo capitale umano, “la cui qualità si è dimostrata insufficiente ad affrontare questi profondi cambiamenti”. Il capitale umano, insiste Visco, e’ una variabile fondamentale per la crescita, ma l’Italia, purtroppo, e’ invece il regno dell’analfabetismo funzionale: il 70% degli adulti non è in grado di comprendere testi lunghi e articolati (siamo ultimi tra i paesi Ocse, dove la media e’ inferiore al 50 per cento), una percentuale analoga non è in grado di utilizzare adeguatamente informazioni matematiche (contro il 52 per cento nella media degli altri paesi), la quota di laureati e’ appena del 15%,  (contro una media Ocse del 32%). Per contro, e’ anche noto che in Italia una laurea non rende come negli altri paesi: la forbice tra chi esce da una quinquennale e chi da una scuola tecnica e’ minima, tanto che si potrebbe pensare che il gioco, forse, non valga la candela.

Ma le conseguenze possono essere disastrose. La ridotta differenza retributiva tra chi ha una laurea e chi non ce l’ha, spiega infatti Visco, e’ “il risultato di un circolo vizioso tra domanda e offerta di capitale umano, che ne amplifica le rispettive carenze”. In parole povere: a una istruzione di bassa qualità le imprese reagiscono con salari bassi, i quali, a loro volta, scoraggiano un più elevato investimento in istruzione. Inoltre, le difficoltà delle imprese nel trovare competenze adeguate nel mercato del lavoro, in particolare nelle tecnologie digitali, avverte il Governatore, “potrebbero non solo averle spinte a non innalzare i salari, ma anche a consolidare la bassa propensione a investire in nuove tecnologie, contenendo di conseguenza il fabbisogno di manodopera qualificata”. Una spirale perversa che va spezzata al più presto, perché se non si inverte la tendenza c’e’ poco da fare: l’Italia sarà destinata a un futuro modello Flint, non certo al modello Seattle.

Vale la pena, per concludere, di ricordare che siamo ai minimi anche per quanto riguarda la formazione sul posto di lavoro: sono ancora pochissime le imprese italiane che svolgono formazione professionale per i propri dipendenti. Un problema che la Confindustria conosce bene, tanto che, assieme a Cgil, Cisl e Uil, si stanno facendo grandi sforzi per aumentare il raggio d’azione e gli obiettivi di Fondimpresa. Proprio a un convegno recente di Fondimpresa il presidente degli industriali, Vincenzo Boccia, ha riassunto bene tutto il problema in una  frase: “Quando ero ragazzo, le famiglie dicevano ai figli poco diligenti: ‘’se non studi ti mando a lavorare’’. Oggi questo principio va rovesciato, ai figli bisogna dire: ‘’se studi, poi lavorerai. Se non studi resterai a casa, disoccupato’’. Qualcuno lo faccia sapere all’associato di Cuneo, il dottor Gola.

Nunzia Penelope

Tags: LavoroFormazioneConfindustria
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Vicedirettrice de Il Diario del lavoro

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