di Marigia Maulucci, segretario confederale Cgil
Ritengo utile la discussione aperta da “il diario del lavoro” sulla contrattazione e non intendo sottrarmi all’opportunità che mi viene data di dire la mia: lo farò, convinta – come ha sostenuto Baretta – che un sindacato che non contratta “non vive,non difende e non emancipa”. Il lavoro unitario sul modello contrattuale, dunque, ha senso se produce una sintesi in grado di rispondere alle emergenze dell’attuale situazione economica e sociale e alle profonde modificazioni intervenute nella struttura produttiva, nello sforzo di tutelare e migliorare le condizioni dei nostri rappresentati. In altri termini, una discussione che si incaglia sul livello, nazionale o articolato, nel quale ridistribuire una produttività che non c’è, è, come dire, una contradictio in objecto, è inutilmente defatigante e , in assenza di materia, necessariamente ideologica.
Un’agenda,invece, che cerca di ricostruire le condizioni di contesto che rendano possibile la formazione di produttività, risponde meglio ai problemi, fornisce alle controparti datoriali il quadro delle nostre proposte in attesa che un Governo degno di questo nome sia interessato a come invertire il ciclo recessivo. L’attesa non è evidentemente un alibi, né una posizione ideologica, né un diktat pregiudiziale: è solo la constatazione dell’impossibilità di interlocuzione con questo esecutivo, è l’esatta percezione della realtà.
E, per le ragioni legate alle priorità di quell’agenda che dicevo, per le risposte a molte delle condizioni presenti nello stesso documento di Confindustria sul modello contrattuale, per fare cioè una cosa seria, dobbiamo essere in tre, come in tre siamo stati nel luglio del ’93, come in tre richiede la politica dei redditi, che sostiene qualsiasi modello contrattuale che non voglia fondarsi solo sui rapporti di forza. Comunque sia, la convergenza tra le organizzazioni sindacali prima, e con le controparti poi, sulle priorità e sulla strumentazione è una strada da percorrere col massimo della serietà e determinazione, come soggetti sociali che sentono in pieno il peso della propria responsabilità in una situazione di crisi.
Etica della responsabilità, assoluta parità degli interessi in campo – come sostiene Nicoletta Rocchi -, disponibilità alla costruzione delle convergenze devono poter costruire un nuovo modello di relazioni sindacali , fondato sulla centralità del lavoro. Non riesco proprio a immaginare una società che riprogetta se stessa senza un ruolo centrale dei lavoratori e delle imprese.
I più ottimisti tra gli analisti economici quantificano allo 0,2% la crescita del Pil nel 2005, le esportazioni dei nostri prodotti si riducono consistentemente in assoluto e in relazione anche ai nostri diretti competitori europei, siamo al fondo della classifica della competitività e il Governo, artefice con quote consistenti di responsabilità rispetto a questa débacle, non ha né risorse, né tanto meno volontà politica per affrontare questa emergenza. La prossima legge finanziaria guarderà al futuro prossimo delle elezioni e al presente litigioso delle forze politiche di governo: la fantasia del nuovo ministro dell’Economia comporrà queste esigenze con ripercussioni devastanti sullo stato già disastrato dei conti pubblici.
Quell’etica della responsabilità richiede oggi una nuova politica dei redditi che si ponga come obiettivo la ripresa della produttività a partire dal cambiamento del modello di specializzazione produttiva: non si traghetta, affannosamente e in ritardo, un Paese dal manifatturiero all’economia della conoscenza senza risorse, senza consapevolezza del ruolo di ciascuno, senza reciproci affidamenti. Ha un senso rivedere il modello contrattuale oggi se assumiamo le tre emergenze della fase: l’organizzazione del lavoro della struttura produttiva, la crescita della produttività, il sistema delle relazioni sindacali. A queste emergenze occorre rispondere e in questo perimetro occorre misurare le possibili convergenze.
Ho trovato condivisibili alcune premesse del documento di Confindustria su questi aspetti: ho detto alcune premesse, non certo tutte le soluzioni, ma constatare che i nostri perimetri sono, a mio parere, confinanti può aiutare ad accorciare le distanze .
Le modifiche intervenute nella struttura produttiva e nell’organizzazione del lavoro non sono state oggetto di confronto tra le parti, l’esplosione dell’innovazione di processo ha travolto le imprese e i lavoratori, le sfide globali e la moneta forte hanno funzionato da uragano. Il nostro tessuto produttivo, povero di fattori generali di sostegno alla crescita, ha verificato quanto possa essere sbagliato e riduttivo puntare sulla svalutazione della moneta e/o sulla precarizzazione del lavoro come fattore di competitività.
Ad un lavoro povero di contenuti professionali, precario nelle sue modalità , volatile nella sua appartenenza corrisponde un’impresa povera, precaria e volatile. Se la sfida è di competitività su fattori di innovazione, in comparti di servizi alle imprese, di terziario, di manifatturiero innovativo, fare leva sulla qualità del lavoro è leva di crescita, è scommessa sulle condizioni di formazione della produttività: le imprese che assumono questa scommessa vanno sostenute nell’investimento, negli interventi di riduzione del costo del lavoro. Manterrei questa opzione di selettività sempre alla luce di quell’esigenza prioritaria di individuazione degli obiettivi di modifica della struttura produttiva che richiedono scelte e traghettamenti piuttosto che interventi a pioggia, dannosi in questa fase e per giunta poveri di risorse di copertura.
In questo quadro è legittimo e persino utile parlare di contrattazione della flessibilità, che è articolazione contrattata dell’esercizio della prestazione lavorativa , nel quadro certo di diritti. Penso, come Confindustria, che vada drasticamente ridotto il numero dei contratti proprio per rendere l’esigibilità delle coperture del Ccnl a disposizione di un numero più ampio di lavoratori. Penso che le modalità di accesso al lavoro debbano essere oggetto della contrattazione di II livello, alla luce di una verifica congiunta delle motivazioni che rendano congruo un lavoro a termine, piuttosto che un part-time, piuttosto che una accesso sostenuto da formazione, nella consapevolezza comune dell’obiettivo di possibile stabilizzazione.
E sugli strumenti mi fermo qui, perché il buon senso delle imprese ci ha dimostrato, dati alla mano, che sono poco interessate a tutto quel fantasioso ventaglio della legge 30. Lavorando anche su una progressiva omogeneità della contribuzione tra lavoro flessibile e lavoro stabile potremmo forse cominciare a considerare inutile e dannosa quella barbara selva di co.co.pro e partite Iva, che mi auguro spariscano presto insieme a questo Governo: non si risale nella graduatoria di competitività con questi imbrogli. Seconda emergenza, la crescita della produttività. Questa è una priorità, insieme al recupero del potere d’acquisto di salari e stipendi notevolmente falcidiati.
E’ dunque ragionevole pensare che esiste un livello, sovraordinato gerarchicamente, che è il Ccnl, che consente il recupero dell’inflazione reale e stabilisce la distribuzione delle materie, che esistono politiche pubbliche che sostengono la tenuta del potere d’acquisto, che la contrattazione di II livello ridistribuisce la produttività. Laddove essa si forma e dentro un percorso negoziale che ne ha determinato le condizioni di formazione e redistribuzione.
Come però non interrogarsi sulla reale congruenza di questo impianto in assenza di quelle politiche pubbliche? Come non predeterminare le condizioni che rendano più estesi gli spazi di contrattazione articolata, perché ad un numero più consistente dell’attuale possano andare i benefici di una produttività che si è contribuito a determinare? Se lo spirito col quale costruiamo un’intesa tra sindacati e un avvio di discussione con le controparti è quello della responsabilità collettiva, dobbiamo dirci che il limite (per quanto mi riguarda, l’unico) del Protocollo del 23 luglio è proprio l’estensione e le coperture della contrattazione del II livello: quali avanzamenti prevediamo per quei lavoratori, e sono la maggioranza, che non contrattano sul posto di lavoro?
Provo a rispondere a questa domanda con la terza emergenza: la qualità delle relazioni sindacali. Condividendo l’assunto che un modello avanzato di relazioni sindacali è fattore di competitività, parlare di modello partecipativo vuol dire riconoscimento reciproco del valore della relazione, che va potenziata, estesa, sostenuta. Occorre, in altri termini, costruire le convenienze, in termini di incentivi/disincentivi, e in termini di condivisione di un processo, perché gli spazi di contrattazione si estendano.