Di Raul Wittenberg
Giovedì 18 giugno è il giorno delle pensioni. Più precisamente, delle pensioni complementari: si tratta del secondo pilastro del nostro sistema previdenziale introdotto nel 1993 e successivamente “aggiustato”. E’ la loro giornata perché il presidente della Covip Antonio Finocchiaro, adempie all’obbligo istituzionale di consegnare al Parlamento la relazione annuale della Commissione di vigilanza sui Fondi pensione che presiede: è l’Authority che la legge italiana pone al centro del nostro complesso sistema della previdenza integrativa a capitalizzazione.
Parliamo di capitalizzazione, ovvero di valorizzare un capitale investendolo nel mercato finanziario. Ciò basta per far rizzare le antenne del lettore informato sulla crisi che da un anno sta attraversando per l’appunto il mercato finanziario, insieme all’economia mondiale. La questione tocca un nervo sensibile, perché si tratta di soldi dei lavoratori e dei datori di lavoro, a cominciare dal TFR, sottratti ai consumi e impegnati in una avventura che si chiama investimento in Borsa. Non solo, ma tale investimento dovrebbe capitalizzare un montante contributivo significativo. Capace cioè di fruttare una rendita vitalizia, una pensione aggiuntiva tra il 10 e il 20 per cento dell’ultima retribuzione.
L’OBIETTIVO DA RAGGIUNGERE. Su questo obiettivo si regge il sistema architettato nel 1993. Obiettivo “politico” e non “finanziario”, perché nel nuovo patto sociale è definita la contribuzione ma non la prestazione. Diciamo che quell’obiettivo si dovrebbe poter raggiungere. E se la Borsa va male è più difficile raggiungerlo. E siccome i lavoratori del terzo millennio dopo le riforme degli anni Novanta avranno una pensione di base Inps notevolmente più bassa di quella dei loro padri, per loro quell’obiettivo è una questione molto, ma molto seria. E’ in ballo il reddito previdenziale di una intera generazione che smetterà di lavorare intorno ai 65 anni, e con quel reddito dovrà mediamente sopravvivere più o meno per una quindicina di anni ancora, secondo quelle che saranno le statistiche sulla speranza di vita al momento del pensionamento.
Ma la Borsa non va sempre male, e non sempre va male dappertutto. Inoltre i Fondi pensione, all’opposto dei Fondi d’investimento, sono degli investitori istituzionali di lungo e lunghissimo termine, per decenni incassano contributi e solo all’età del pensionamento dell’iscritto gli erogano la prestazione. Quindi ci sono le possibilità concrete di recuperare le perdite, soprattutto per i più giovani che avranno scelto l’investimento azionario, rispetto ai più anziani che si saranno messi al riparo delle turbolenze con profili obbligazionari, monetari o addirittura garantiti. Una scelta, questa, imposta dai pochi anni di attività a loro disposizione che riducono o annullano le possibilità di recuperare le perdite eventuali. Insomma, il giudizio sull’efficienza dei fondi integrativi in ragione della loro capacità di erogare una rendita vitalizia, si può dare solo sui tempi lunghi: venti-trent’anni.
UNA NOVITA’: IL RISCHIO. Va detto che entriamo in una categoria con la quale i pensionati attuali, i famosi padri, hanno avuto poco a che fare. E’ la categoria del rischio. Fino alle riforme degli anni Novanta, i rischi connessi alle prestazioni previdenziali erano in capo allo Stato, e quindi della collettività: soprattutto il rischio paese in fatto di crescita o di squilibri nei conti pubblici. Dopo gli anni Novanta tutti i rischi connessi alla prestazione previdenziale vengono trasferiti sul singolo lavoratore. Se il lavoro non è stabile (rischio disoccupazione) e non è ben pagato (rischio reddito) con il calcolo contributivo la pensione Inps sarà più bassa. Nella prestazione integrativa dei Fondi, grava sul lavoratore il rischio finanziario. Il dato è rilevante per il Tfr, che è un salario differito garantito nel capitale e nella rendita, e con la destinazione ai Fondi si trasforma in capitale di rischio.
Di tutto questo si parlerà, giovedì 18 giugno. Delle conseguenze della crisi globale. Di come sono andati i Fondi. Delle iniziative da adottare per assolvere al dovere categorico, alla priorità assoluta dell’attività finanziaria legata ai Fondi integrativi, all’unico scopo per cui sono stati istituiti: quello di dare una pensione agli aderenti. Qualche anticipazione sulla relazione annuale lo stesso professor Finocchiaro l’ha fornita lo scorso aprile nell’audizione al Senato durante l’Indagine conoscitiva sulla disciplina delle forme pensionistiche complementari: una fonte preziosa per questo articolo.
CONFRONTO INTERNAZIONALE. La crisi si è sentita nel sistema dei fondi italiani, ma meno che negli altri paesi OCSE. Su 37 paesi presi in esame, 31 hanno chiuso il 2008 in territorio negativo, con perdite gravi in termini di rendimento che hanno intaccato seriamente il patrimonio dal quale dipende la pensione finale. In questa graduatoria delle perdite più pesanti, l’Italia è al ventiseiesimo posto, imputando un rendimento negativo totale intorno al 4%, subito dopo la Germania che perde circa il 6 per cento. Tutti gli altri paesi industrializzati perdono molto di più, specialmente quelli in cui i Fondi pensione privati danno gran parte del reddito previdenziale rispetto a una pensione pubblica di base molto ridotta, una specie di pensione sociale. Dal meno 15% del Regno Unito, si precipita al meno 22 degli Stati Uniti, al meno 25 di Hong Kong. In vetta alla classifica dei sistemi previdenziali che nel 2008 hanno ricevuto i colpi più duri c’è l’Irlanda, i cui Fondi pensione hanno perso il 35% del loro patrimonio.
SITUAZIONE NAZIONALE. La nostra posizione nella graduatoria OCSE non deve consolare. Occorre vedere com’è andata in ciascuna delle nostre tipologie di Fondi. La più importante è quella dei Fondi negoziali, derivanti da un contratto fra imprese e lavoratori di una o più categorie merceologiche, nei quali si riconosce quasi la metà dei 4,9 milioni di iscritti a una forma pensionistica integrativa, e che gestiscono oltre un quarto dei 61,4 miliardi di euro ad essa complessivamente destinati. Anche in tempi di crisi i Fondi negoziali manifestano migliori performance, limitando le perdite 2008 al 6,3%.
Per i Fondi aperti costituiti dalle istituzioni finanziarie e rivolti alla massa indistinta, la perdita è stata invece del 14 per cento. E per le Polizze Vita con finalità previdenziale dei Piani Individuali Pensionistici (PIP) la perdita è stata del 24,9 per cento.
Bisogna leggere all’interno di ciascuna tipologia per capire come funziona la faccenda. E così scopriamo grandi differenze a seconda che si scelga un comparto azionario più rischioso, piuttosto che uno più prudente obbligazionario. Vale la regola per cui maggiore è il rischio, maggiore è la perdita quando la Borsa va male, però maggiore è il guadagno quando va bene. L’obbligazione è meno rischiosa perché è un prestito concesso ad un dato interesse. L’azione lo è di più in quanto è un titolo di proprietà che partecipa al rischio d’impresa. Nei Fondi negoziali il comparto obbligazionario puro non perde ma guadagna l’1,6 per cento, mentre quello azionario perde il 24,5 per cento. Nei Fondi Aperti obbligazionari puri si guadagna il 4,9%, in quelli azionari si perde il 27,6 per cento. Nei PIP le linee obbligazionarie guadagnano il 2,7%, ma quelle azionarie perdono 36,5 punti.
LA GARA CON IL TFR. Si impone il confronto con il TFR, Trattamento di Fine Rapporto, perché in quanto salario differito è garantito dallo Stato, oltre che nel capitale, nel tasso di rendimento: ovvero, i tre quarti dell’inflazione annua (75%) più una misura fissa di 1,5 punti. Se lo si destina ai Fondi perde queste garanzie, e quindi si vuol sapere se il Fondo ha reso almeno quanto quel TFR avrebbe reso se fosse rimasto tale. Si apre una sorta di gara, in cui il TFR diventa un vero e proprio benchmark di riferimento. Ebbene, dal 2007 il sistema dei fondi in termini di rendimento è stato battuto dal TFR rivalutato del 3,1 per cento. Prima invece avveniva il contrario. Ad esempio nel 2005 il TFR era stato rivalutato al 2,6 per cento, mentre i Fondi Aperti guadagnavano l’11,5 e quelli Negoziali il 7,5 per cento.
Esiste dunque un fattore congiunturale nei confronti del quale saprà farsi valere la capacità gestionale delle varie tipologie di Fondi spesso in concorrenza fra loro. Ma esiste anche un fattore strutturale inerente la penetrazione della previdenza integrativa, del risparmio a scopo previdenziale nel sistema economico nazionale. Come si accennava, le riforme degli anni Novanta hanno ridotto drasticamente le future pensioni della previdenza pubblica obbligatoria, per cui quasi tutte le generazioni di lavoratori ancora attivi sono nella necessità di provvedere ad una integrazione del reddito quando lasceranno il lavoro, se non vogliono ridurre il proprio tenore di vita.
SCARSE ADESIONI. E qui nasce il problema. Gli iscritti ad un piano previdenziale integrativo sono 4,9 milioni. Ma gli occupati, ovvero i soggetti potenzialmente interessati, sono 23 milioni. Una tasso di adesione generale del 21,3%, decisamente scarso. Il lavoratori dipendenti del settore privato iscritti sono 3,6 milioni, su una platea di 12 milioni. Un tasso di adesione del 30%, che pure era atteso come un accettabile minimo dai fondatori del ‘93. Però il taglio della pensione pubblica tocca a tutti. E con questi numeri il sistema delle pensioni private non assolve al compito che si era prefisso, garantire a tutti gli italiani un secondo pilastro su cui basare il proprio reddito quando avranno smesso di lavorare mantenendo il loro tenore di vita. Specialmente per i giovani fino a 35 anni di età, che rappresentano il 39% della popolazione occupata: solo uno su quattro aderisce a un fondo. Che cosa accadrà fra trent’anni per gli altri tre, spesso lavoratori precari o in nero?
A questo proposito è utile notare che nel 2008 l’incremento percentuale delle adesioni è stato di 6,5 punti in generale, della metà per i Fondi negoziali. Di contro, per le Polizze Vita c’è stata una vera esplosione. Un + 44,4 per cento nonostante la minor convenienza dei costi di gestione di tre volte superiori a quelli delle altre due tipologie di Fondi, e nonostante la minore redditività dell’investimento. E’ vero che i PIP sono partiti più tardi, ma la dimensione della crescita resta eccezionale. Ecco una spiegazione possibile. Nei suoi rapporti normali con gli assicurati, ad esempio per il rinnovo della RCA, la compagnia di assicurazione può proporre al capofamiglia un PIP per il figlio trentenne privo di una occupazione stabile e quindi privo di una ragionevole prospettiva previdenziale. Una proposta che quel capofamiglia non esiterebbe a sottoscrivere. Quindi il successo dei PIP può essere una spia della crisi del mercato del lavoro.
CAMPAGNA DI COMUNICAZIONE. L’informazione e la riduzione del rischio appaiono come la chiave di volta per un rilancio del sistema. Avremo un appello generale, a cominciare dalla Covip, per una grande campagna d’informazione istituzionale simile, se non più intensa, a quella che ci fu per la destinazione del TFR ai Fondi pensione. Campagna suggerita anche dalle parti sociali. Ad esempio Morena Piccinini della segreteria Cgil, la contrappone a certe tesi che circolano, e che prospettano l’obbligo dell’iscrizione a un Fondo laddove il sistema è fondato sulla volontarietà. In particolare Sergio Corbello, presidente di Assoprevidenza (l’associazione dei fondi preesistenti alla riforma del ’93) raccomanda l’informazione sul livello di copertura del sistema pubblico obbligatorio, specialmente in condizioni di recessione: infatti il montante contributivo presso l’Inps è indicizzato alla media dei 5 anni del Pil, e col Pil negativo le pensioni pubbliche saranno ancora più basse.
Più complessa è la limitazione del rischio, in un istituto in cui il rischio è principio fondante. Si ragiona molto su un meccanismo di garanzie, almeno per un rendimento minimo. Nei Fondi negoziali esistono comparti garantiti. Il problema è però che la garanzia ha un costo, il costo incide sul patrimonio e quindi sul risultato finale. Si sta facendo strada il modello del Life Cycle (ciclo della vita): un meccanismo che sposta automaticamente l’investimento verso comparti obbligazionari man mano che l’iscritto si avvicina all’età della pensione. Un modello richiamato da Morena Piccinini, citato dal presidente Finocchiaro al Senato, raccomandato dall’OCSE nella riunione del 21 aprile scorso sulle risposte della politica alla crisi economica e finanziaria in relazione alle pensioni private. L’OCSE stimava l’impatto globale della crisi sui sistemi pensionistici in una perdita di 5,4 miliardi di dollari, pari a circa il 20 per cento.
17 giugno 2009