Il dado è ufficialmente tratto. Con l’operazione Autostrade il governo ha sostanzialmente gettato le basi per costruire quella Nuova Iri di cui da un pezzo si parla. L’operazione in realtà è ben lontana dall’essere realizzata: per ora è solo un annuncio. A parte la querelle interna alla maggioranza – chi ha vinto, chi ha perso – nulla è stato ancora messo nero su bianco di come concretamente avverrà il passaggio della società, che gestisce migliaia di km autostradali, dalle mani dei Benetton a quelle dello Stato italiano. Non a caso il commento più calzante lo si deve a Carlo Cottarelli, che riferendosi alle parole con cui il premier Conte ha annunciato la sia pur parziale defenestrazione della famiglia di Ponzano Veneto (“l’interesse pubblico ha avuto la meglio su un grumo ben consolidato di interessi privati”) ha replicato: “l’entusiasmo di Conte mi ricorda ‘abbiamo abolito la povertà”. E speriamo non finisca nello stesso modo.
Il governo si è mosso con così tanta fretta e qualche approssimazione per un motivo di fondo, e cioè arrivare all’inaugurazione del nuovo Ponte di Genova, tra qualche settimana, potendo vantare di aver finalmente “punito” i Benetton. I quali, peraltro, camperanno benone anche senza Autostrade, gestendone altri 10 mila km in giro per il mondo, senza contare tutto il resto del loro infinito patrimonio di partecipazioni, immobili, autogrill, aeroporti, eccetera. Ma sicuramente, e va detto, non hanno brillato nella gestione delle autostrade italiane, che – a parte la tragedia del Morandi – si sono rivelate alla distanza una delle tante privatizzazioni mal realizzate allo Stato, ma anche malissimo utilizzate dai privati. Ed è forse per questo che ci troviamo a questo punto, a questa marcia indietro.
Gli esempi di privatizzazioni mal riuscite non mancano. Quella di Telecom, basata sul famoso “nocciolino duro” e snobbata dagli Agnelli, aveva aperto le porte alla dannosa scalata di Colaninno e soci (i “capitani coraggiosi” appoggiati dal governo D’Alema) che ha riempito di debiti la società e l’ha costretta a una serie di cambi di azionariato e gestione di cui oggi si è praticamente perso il conto. Il risultato è che gli investimenti necessari al rafforzamento e modernizzazione della rete non sono stati possibili, e oggi si profila anche per Telecom un intervento dello Stato, attraverso il ‘matrimonio’ con la rete della pubblica OpenFiber. L’Italia, tra l’altro, anche questo vale la pena di ricordare, è il solo paese che ha saputo lanciare un gran numero di società di Tlc (Telecom, Fastweb, Wind, Tre, Omnitel, Blu) per poi perderle tutte: Telecom oggi è francese, Wind e Tre si sono fuse e sono passate dagli egiziani ai russi ai cinesi, ecc. Omnitel è stata ceduta da Carlo De Benedetti a Vodafone, Fastweb, nata a Milano, la prima a credere nella fibra ottica, è oggi svizzera.
Sempre nel campo privatizzazioni mal riuscite, che dire dell’Ilva, venduta dall’Iri ai Riva? è stata a lungo una gallina dalle uova d’oro, ma poi il nuovo patron privato ha mostrato il solito braccino corto, non ha fatto gli investimenti che erano necessari, l’azienda e la famiglia proprietaria sono finite in tribunale, dopo molte traversie la società è stata commissariata dal governo, poi ceduta dallo stesso governo al gruppo angloindiano ArcelorMittal, e infine oggi si profila, anche per l’acciaio, un ritorno tra le braccia dello Stato. Stessa storia per Alitalia, presa, lasciata, ripresa, sempre con quel debito monstre in aumento, frutto di errori di gestione, di sciatterie e di connivenze, e sempre sventolando la necessità di avere un tricolore nei cieli: ce le ricordiamo le cordate di altri “capitani coraggiosi” messe insieme a viva forza da Berlusconi per “salvarla” dalla vendita ai francesi, o agli olandesi, o agli svedesi, o a chissachi. Col risultato che anche Alitalia, adesso, col suo fardello pesantissimo di debito, andrà a infittire la schiera di aziende sotto l’ala dello Stato Imprenditore. E lasciamo stare l’auto, ma varrebbe la pena di chiedersi, ogni tanto: se quell’Alfa Romeo che sempre l’Iri dei tempi d’oro cedette, in modo piuttosto discutibile, alla Fiat che l’ha poi sostanzialmente abbandonata a sé stessa, fosse invece andata alla Ford, come sarebbe accaduto senza l’intervento a gamba tesa del Lingotto che temeva la concorrenza degli americani, quale sarebbe oggi lo scenario?
Le privatizzazioni, insomma, sono state fatte spesso malamente dal decisore pubblico, ma anche i privati non hanno scherzato quanto a errori ed omissioni, volentieri adagiandosi in quelli che erano confortevoli monopoli, come appunto è stato per i Benetton con Autostrade. Anche le storie di successo ci sono, ovviamente: lo è stata indubbiamente, per fare un solo esempio, quella dell’Eni. Ma quanto costò di fatica quella privatizzazione, con quante guerre interne ed esterne, agguati e vendette, lo sa solo Franco Bernabè, che dal 1992 al 1998 la guidò fuori dalla palude del post Tangentopoli, fino a condurla alla Borsa e al successo. Bernabè racconta quell’ avventura nel suo libro autobiografico “A conti fatti”, da poco uscito per Feltrinelli: lettura consigliata a tutti coloro che hanno voglia di capire quanto era stato difficile, e quanta opposizione arrivò dai partiti, dalla politica, dai diversi governi, nei confronti di quella trasformazione-liberazione dell’Eni, da ente pubblico a regina del mercato. Giuliano Amato, che da premier avviò l’operazione, oggi racconta: “un vicesegretario di un partito di governo, per farmi desistere, mi venne a cercare perfino nei bagni di Palazzo Chigi”. Tutto il libro di Bernabè (che ha vissuto per ben due volte anche la ingarbugliata vicenda della Telecom, e anche di quella lungamente nel volume parla) è una lezione su come sarebbe meglio tenere gli affari distinti dalla politica e viceversa.
Ma i tempi cambiano, oggi la voglia di un ritorno allo Stato in economia è forte, a tutti i livelli. Tanto che anche la Cgil, in un documento consegnato a Conte nel corso degli Stati generali di Villa Pamphili, chiede esplicitamente di dare allo Stato in economia un ruolo centrale, non solo come “regolatore” ma come attore primario: proponendo, appunto, di creare una Nuova Iri cui affidare il compito di definire la specializzazione industriale del paese, e assumendo che vengano ri-pubblicizzate alcune aziende, a partire da Alitalia. “Il mercato ha fallito, serve più Stato”, ha ripetuto giusto ieri Maurizio Landini, concludendo un approfonito dibattito sul tema, sviluppato dalla Cgil con l’apporto di intellettuali ed economisti. Può essere che i tempi difficili che stiamo vivendo richiedano proprio questo, chissà. Può essere che, date le non brillanti performance dei privati, la mano pubblica in versione nuovo millennio saprà fare meglio che in passato. Capiremo solo nei prossimi mesi e anni se lo Stato Imprenditore avrà successo, o se nasceranno nuovi carrozzoni pubblici – più Gepi che Iri, diciamo – destinati ad appesantire il debito e a incoraggiare nuove liasons dangereuses tra politica e affari.
E tuttavia, ripensando proprio alla vocazione industriale del nostro paese, se oggi dovessimo dire cosa realmente va imputato ai Benetton, è di aver lasciato cadere quella fantastica intuizione sull’abbigliamento trendy a basso costo che era United Colors, per ripiegare sulla rendita, assai comoda, dei caselli autostradali. Regalando così uno spazio immenso ad altri gruppi internazionali, come Zara e H&M, che hanno costruito il loro successo planetario ricalcando, con ben altra determinazione, esattamente la strada indicata, per primi, dai Benetton. Forse, se a Ponzano Veneto avessero continuato a puntare sulle t-shirt, oggi su quegli imperi sventolerebbe il tricolore. Altro che Alitalia. Ma del resto, come dice Giuliano Amato a proposito di Autostrade: “nemmeno Sant’Antonio riuscirebbe a resisterebbe alle tentazioni del monopolio”. Soprattutto se lo Stato te lo offre senza chiederti nulla in cambio.
Nunzia Penelope