La conciliazione dei tempi di vita e lavoro è, ancora prima che un aspetto giuridico o aziendale, un fattore culturale. Perché parlare di conciliazione vuol dire non fare un discorso unicamente circoscritto alla forza lavoro femminile, ma rivolto ad entrambi i sessi. Ecco perché è importante, prima di ogni altra cosa, mutare l’impostazione culturale di questo paese, che si riflette anche nelle dinamiche del mercato del lavoro.
Con queste parole il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha concluso il convegno “Politiche di conciliazione e welfare aziendale”, tenutosi a Roma, lo scorso 13 luglio. Un’occasione nella quale rappresentanti delle istituzioni, del mondo del lavoro e di quello accademico hanno tirato le fila sullo stato dell’arte di un tema così importante e strategico come quello del work life-balance.
Un tema di grande attualità e “moda”, che tocca da vicino la componente femminile della forza lavoro. I numeri delineano un quadro negativo per l’Italia, per quanto riguarda “l’occupazione rosa”. Da anni, infatti, la percentuale delle donne impiegate è ferma al 48%, ben al di sotto della media di alcuni paesi europei, come quelli scandinavi, dove si arriva al 60%, e in determinati settori si supera abbondantemente il 70%. Percentuali altrettanto basse si riscontrano nelle posizioni apicali, dove il gap tra manager uomini e donne è ancora molto ampio. Nel settore assicurativo, ad esempio, rappresentato nell’occasione da Luigi Caso, Direttore Servizio Relazioni Industriali Ania, solo il 46% delle donne ricopre ruoli dirigenziali.
Il ritardo del nostro paese, sul tema della bassa presenza delle donne nel mercato, si deve a ritardi strutturali, culturali e legislativi, che, la normativa più recente, come i nuovi congedi parentali, sta cercando di colmare. La mancanza di politiche volte a promuovere e sostenere l’occupazione femminile, e l’assenza di una rete di servizi per la conciliazione dei tempi di vita e lavoro, pongono molte donne davanti alla scelta tra la maternità e la carriera, tanto che, nel 2016, in 30mila si sono trovate nella condizione per la quale la costruzione di una futura famiglia poteva avvenire unicamente rinunciando al lavoro. Sul versante opposto, la possibilità di fare carriera preclude, a volte, la realizzazione della donna come madre. Tutto questo incide sui bassissimi livelli di natalità che contraddistinguono l’Italia, ai minimi storici come ha confermato l’Istat. Dunque, affrontare il tema della conciliazione e della parità di genere nel mercato del lavoro vuol dire trattare delle questioni che hanno un peso sistemico. Infatti, secondo le stime dell’Inps, la bassa occupazione femminile, unita al venir meno del contributo economico dei migranti, potrebbero causare, da qui al 2040, un buco nella previdenza di circa 40 miliardi di euro.
La portata e la complessità del tema richiederà un coinvolgimento sempre più ampio e attivo di tutti gli attori del mondo del lavoro. La crescente attenzione da parte del legislatore nel porre in essere nuovi strumenti per la conciliazione, o nel rafforzare quelli già esistenti, come il congedo parentale, non è e non può essere l’unica leva. In questa prospettiva il welfare contrattuale, concertato attraverso la contrattazione territoriale o aziendale, può rappresentare una soluzione per mettere a punto mezzi e servizi pensati per la conciliazione. Tutto questo pone la necessità, per i policy makers, di individuare il giusto rapporto tra welfare pubblico e contrattuale, e come questo possa essere diffuso, in modo uniforme, nel tessuto produttivo.
L’intervento di Armando Tursi, docente di Diritto del Lavoro presso l’università di Milano, ha delineato quel cambiamento, culturale e sociologico, che ha profondamente trasformato il mondo del lavoro degli ultimi decenni. Siamo passati infatti dal modello del male breadwinner, nel quale la responsabilità economica ricadeva interamente sul capo famiglia maschio, e quella di cura solo sulla donna, al dual earner-female care, dove si ha una situazione nella quale entrambi i componenti della famiglia lavorano, ma si tende ancora a vedere i compiti di cura come una prerogativa tipicamente femminile, al dual earner-dual care, come paradigma nel quale, il coinvolgimento paritetico di uomini e donne nell’ambito delle cure ai figli o agli anziani, diviene la via maestra per promuovere una vera eguaglianza di genere. Ci troviamo tuttavia in un contesto nel quale il welfare state pubblico fatica nel tenere il passo di questi nuovi processi. Il retrenchment del perimetro pubblico si configura sia come una vera e propria riduzione della spesa, sia come una mancata ricalibratura verso le nuove sfide. Tra le mani abbiamo strumenti inefficienti e inefficaci nel dare risposte alle nuove problematiche sociali. In questo il welfare aziendale può rappresentare quella dimensione innovativa, anche in tema di conciliazione.
Non esiste una categoria normativa di welfare aziendale, ha sottolineato Tursi, benché, ultimamente, siano stati messi a punti molti strumenti legislativi volti alla sua promozione, ma ci muoviamo all’interno di uno spazio sociologico e politologico. Il welfare aziendale diventa infatti una delle tante vie sia per dare impulso a nuove tipologie di lavoro, come lo smart working, sia per offrire tutele più ampie a specifiche tipologie contrattuali, basti pensare al nuovo statuto per gli autonomi. Risponde inoltre, nella gestione delle risorse umane, a quella logica di total reward, che non punta unicamente al benessere economico del lavoratore, ma che ricerca un appagamento totale della persona. In quest’ottica, gli strumenti di conciliazione svolgono un ruolo fondamentale.
Il vero scatto culturale sta nel capire che non si deve dare, a queste misure, una precisa connotazione di genere, ma che debbano essere pensate in una prospettiva “unisex”. È questa la grande sfida alla quale, secondo Maurizio Del Conte, presidente dell’Anpal, si deve rispondere. Basti pensare come, per il padre, il congedo di due giorni per accudire il figlio sia facoltativo. E questo testimonia il ritardo nella cultura lavorativa del Paese, per la quale deve essere la donna il primo soggetto sul quale ricadono i compiti di cura. Al tempo stesso, ha sottolineato Del Conte, è opportuno offrire maggiori garanzie a quelle tipologie di lavoro, come quello autonomo, che per natura favoriscono la conciliazione dei tempi, ma sono prive di quelle coperture che, il welfare aziendale, prevede per altre forme contrattuali. E, in questa luce, è di grande rilevanza la legge 81 del 2017. Contestualmente, Del Conte ha auspicato il rafforzamento di nuovi schemi organizzativi, come il lavoro agile, capaci di slegare la performance lavorativa dai vincoli di spazio e tempo, su i quali è possibile innestare e rafforzare nuove modalità per il work life-balance.
Le politiche di conciliazione si muovono dunque, da una parte, sul terreno delle normative elaborate al livello nazionale, che, dall’altra, trovano, frequentemente, una concreta e valida applicazione sul piano del welfare aziendale. L’altra sfida sta nel capire la reale diffusione di queste best practices nel tessuto produttivo. Durante il convegno sono intervenuti i responsabili delle aree welfare e risorse umane di FCA, Generali Italia e Cimbali. Tutte tre sono realtà che si muovono sui mercati internazionali, che hanno una storia di welfare aziendale ben consolidata. Ciambali, benché sia più piccola di FCA e Generali, è nata e si è sviluppata all’interno di un tessuto produttivo ricco e dinamico, come quello lombardo, nel quale è presente una lunga tradizione di mutualismo e forme di assistenza.
Il punto è che il tessuto produttivo italiano presenta un elevato grado di eterogeneità, contraddistinto per il 90% da piccole o medie imprese, che molto spesso non hanno le risorse e le capacità per poter attuare piani di welfare. È necessario valutare anche la realtà economica nella quale è chiamata ad operare, e anche il settore di riferimento. Se infatti, al livello nazionale, l’occupazione femminile si attesta al 48%, in alcuni comparti è molto più elevata, e questo richiede strumenti di conciliazione molto più complessi.
Una situazione di questo tipo si può ritrovare nel commercio e il turismo, dove, come ha osservato Iole Vernola, Direttrice Centrale Politiche del Lavoro e del Welfare di Confcommercio, dove le donne costituiscono il 60% della forza lavoro, per arrivare al 70% nei servizi, in linea con le quote dei paesi scandinavi. In questi settori, non solo c’è una presenza, dal punto di vista quantitativo, molto diffusa delle lavoratrici, ma, come in molte altre aree economiche, hanno un livello di istruzione più alto rispetto ai colleghi maschi. Questi dati richiedono l’elaborazione di strumenti di conciliazione sempre più complessi.
Il primo passo da compiere, hanno sottolineato Agostino Megale, Segretario Generale Fisac Cgil, e Gianluigi Petteni, Segretario Confederale Cisl, è quello di operare un’attenta riflessione su quali siano gli istituti che di diritto possono rientrare nel welfare aziendale, senza e sanare poi il solco scavato con quelle tipologie contrattuali meno tutelate, che richiedono le stesse coperture contemplate per altre fasce di lavoratori. Prestare attenzione al tema della conciliazione significa prestare attenzione alla dignità del lavoro, e all’uguaglianza tra uomo e donna.
Permettere ai lavoratori, uomini e donne, di conciliare, nel migliore dei modi, i tempi privati con quelli lavorativi è dunque, prima di tutto, un fattore culturale, che riconosce piena dignità al lavoro e medesime opportunità per entrambi i sessi. Costituisce inoltre una sfida, e al tempo stesso, un’opportunità per sperimentare e implementare nuove forme di organizzazione nei luoghi di lavoro, e innescare in questo modo un vero processo di innovazione.
Tommaso Nutarelli