Dopo che per anni i dipendenti pubblici sono stati considerati i corresponsabili della crisi del paese, oggi finalmente qualcosa sta cambiando. Il presidente Renzi ha dunque fatta sua la posizione di chi dice che per rilanciare i consumi ( dando così una spinta all’economia) una delle soluzioni è immettere nuovo carburante nel motore, ormai a secco, degli oltre 3 milioni di pubblici dipendenti.
Certo, la sua è la scoperta dell’acqua calda, dopo che la Corte dei Conti ha certificato che la spesa per i redditi del lavoro dipendente è calata dal 2010 di oltre 11 miliardi (-6,3%) e che il livello retributivo degli stessi dipendenti pubblici è ritornato a livello del 2006. Poteva dunque il presidente del consiglio, in crescente calo di consensi, continuare a sostenere la tesi peregrina che la ripresa economica sia una variabile dipendente dal taglio della spesa pubblica e dalla riduzione di quella del personale?
Sarebbe stata una tesi talmente irrealistica che solo Renato Brunetta avrebbe potuto continuare a sostenerla dall’alto del suo antico e autorevole mestiere di professore universitario di economia.
Ora dunque i due problemi reali: le risorse necessarie al rinnovo dei contratti e i criteri con cui distribuire le stesse.
Per quanto riguarda il primo punto è altrettanto evidente che i 300 milioni già stanziati sono solo il cip per iniziare giocare, come peraltro ha ammesso lo stesso Renzi. Per le poste della partita vera e proprio serve dell’altro da inserire nella prossima legge di stabilità. E qui le risorse dovrebbero essere superiori di almeno uno zero!
Per quanto riguarda il secondo punto le opzioni possibile sono tre: una distribuzione a pioggia ( in funzione ovviamente dei diversi parametri retributivi); una distribuzione solo per le fasce a basso reddito e infine una distribuzione correlata al cosiddetto sistema premiante.
La prima soluzione sembrerebbe la più logica e la più facilmente percorribile se è vero, come e’ vero, che la cura da cavallo degli ultimi sette anni riservata ai travet ha annullato i benefici economici conquistati con le due ultime tornate contrattuali e che il danno ha, in valori assoluti, maggiormente colpito le qualifiche più alte. La reintegrazione del salario, dunque, non dovrebbe non seguire lo stesso criterio di proporzionalità.
La seconda soluzione, se pur giusta per un criterio re-distributivo, appare la meno sostenibile e la più difficilmente percorribile. E’ infatti solo di ieri l’analisi del presidente dell’INPS Tito Boeri sui costi dei vitalizi in pagamento per cariche elettive alla Camera o al Senato, che ammontano a circa 2.600, per un costo di 193 milioni di euro, con una intollerabile sproporzione tra quanto versato e quanto percepito. Di qui la proposta di Boeri di «applicare le regole del sistema contributivo oggi in vigore per tutti gli altri lavoratori all’intera carriera contributiva dei parlamentari», scelta che ridurrebbe del 40% la spesa per i vitalizi, «scendendo a 118 milioni, con un risparmio, dunque, di circa 76 milioni di euro l’anno (760 milioni nei prossimi 10 anni). Se si vuole dunque introdurre un criterio di giustizia sociale si cominci allora da chi percepisce rendite che vengono pagate proprio da quei lavoratori a cui si chiedono altri sacrifici. Ma e’ del tutto evidente la insostenibilità di tale tesi, che oltretutto non sembra estranea a dubbi di costituzionalità.
La terza soluzione sembrerebbe a sua volta la migliore. Basta con gli aumenti a pioggia, si premi finalmente il merito! Tesi suggestiva, e cara alle sempre più nutrite schiere di convertiti al pensiero bocconiano che della misura hanno fatto il loro mantra. Una opzione, tuttavia, più facile a dirsi che a farsi in un paese come il nostro, in cui il familismo amorale è il principale metodo di selezione della classe dirigente e in cui la stragrande maggioranza degli appalti pubblici viene attribuita con procedure che nulla hanno a che vedere con le logiche della concorrenza e del libero mercato.
Un sistema coerente di valutazione delle performances per essere credibile, infatti, dovrebbe iniziare dai vertici e dovrebbe coinvolgere gli stessi parlamentari e a seguire tutti gli amministratori pubblici, a discendere dal grado più elevato. Si può fare infatti una crociata contro l’assenteismo e quindi contro lo scarso rendimento dei travet pubblici quando si apprende che i due europarlamentari italiani Alessandra Mussolini e Renato Soru ( che dell’Italia sono i rappresentanti dello schieramento di destra e di sinistra) si sono contraddistinti per il più basso ranking di presenza ( rispettivamente al 722 esimo e 745 esimo posto di demerito) senza che nessuno abbia finora aperto bocca per censurarne il comportamento? E che dire delle centinaia di sindaci e presidenti di regione che hanno sbancato i bilanci pubblici portando spesso sul baratro gli enti da loro amministrati e che pure hanno continuato ad avere una fulgida carriera politica? Perché per loro non si è mai introdotto la misura legislativa del fallimento politico con impossibilità di ricoprire incarichi ulteriori?
Dunque quella che in teoria sembrerebbe la soluzione migliore, si tradurrebbe in una beffa senza precedenti, perché la misura adottata sarebbe diametralmente opposta all’elementare criterio dell’”erga omnes” che sempre viene invocato nella contrattualistica.
La partita è dunque all’inizio. Basta solo aspettare per vedere come finirà.
Roberto Polillo