La crisi dei corpi intermedi è soprattutto una crisi di distanze: della classe dirigente rispetto al paese reale, al mondo “del piano di sotto”, per dirla con Erri De Luca. E’ questa, in estrema sintesi, l’analisi di Alessandro Riello, imprenditore del triveneto, sul drammatico vuoto di rappresentanza nel paese. Un vuoto che riguarda tutti: le associazioni delle imprese, i sindacati, i partiti. Secondo Riello, soffrono tutti dello stesso male: l’incapacità di ascoltare le necessità della ‘’base’’, la conseguente incapacità di dare risposte adeguate: “Prenda la Confindustria, per esempio: io, come imprenditore, ho moltissime perplessità rispetto alla sua capacità di rappresentare le mie istanze. Prende posizioni annacquate, lontane dalla nostra realtà’.
Per quale motivo, secondo lei?
Ha perso la sua identità originaria, quella per cui era nata: Confindustria, come dice la parola stessa, doveva essere il punto di riferimento del mondo industriale. Ma si è riempita di aziende del terziario e di aziende ex pubbliche, e oggi è un miscuglio tale che per rappresentare tutti non rappresenta più niente’’. Infatti, ci siamo attrezzati da soli: qui in Veneto abbiamo dato vita a un sodalizio tra imprenditori, Forum Agire: non in concorrenza né in opposizione con Confindustria, è qualcosa di “altro”. Raduna un’ottantina di noi a titolo personale, ci ritroviamo per dibattere assieme, per palesare alla società civile quali sono le nostre difficoltà, le nostre necessita. Non è una cosa in concorrenza con le associazioni di impresa: dentro c’è gente che ha fatto e fa parte di Confindustria, ma che oggi sente il bisogno di trovarsi attorno a un tavolo per fare proposte, visto che dall’associazione non arrivano più.
Vede una crisi analoga nel sindacato?
Nel sindacato c’è uno scollamento impressionante tra i sindacati interni all’azienda e il gruppo dirigente esterno. Quelli che stanno in fabbrica vivono la realtè del mercato, mentre i vertici e l’apparato burocratico fanno molta politica ma sostanzialmente sono fuori dal mondo. Vivono su un altro pianeta, esattamente come i confindustriali.
Tuttavia, il sindacato non vive una crisi delle tessere: gli iscritti resistono, non calano. A differenza della Confindustria, che registra alcune defezioni importanti, a partire dalla Fiat.
Un conto sono i numeri, un conto la partecipazione. E quella si sta perdendo ovunque. Questa è la crisi vera della rappresentanza: c’è disaffezione per la Confindustria, per la politica, per il sindacato.
Proprio Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, ha paventato possibili rivolte sociali. Lei concorda?
Che ci sia un profondo malessere è vero, che ci siano i rischi di reazioni non controllate è forse anche vero. Quando torno a casa, la sera, passo davanti a chilometri di fabbriche chiuse, ma nel nostro territorio io vedo ancora il senso di lavorare insieme per uscire da questa situazione. Chi è riuscito a resistere ha trovato nei propri collaboratori la voglia di fare altrettanto, si sono create alleanze solidali contro la crisi. Noi tutti i mesi programmiamo la cassa integrazione, ma fino a oggi siamo riusciti a non farla mai. Di mese in mese andiamo avanti così e speriamo che anche il prossimo di scamparla. E se chiedo di lavorare il sabato, la gente non fa la schizzinosa.
Ma questo non rischia di abbassare complessivamente le aspettative, le ambizioni, il livello dei diritti nel nostro paese? C’è il rischio di uscire dalla crisi (sempre se ne usciremo) con l’idea che, scampata la morte, tanto basta per ringraziare il cielo?
Un bagno di umiltà non ci farà male, ma questo non significa autoflagellarsi. Dalla crisi usciremo forse più piccoli, ma certo più forti. Guardi la mia azienda: in un settore che ha perso il 20 per cento, noi abbiamo perso soltanto l’8%. Significa che siamo in una torta più piccola, ma ci siamo, e rubiamo quote di mercato ad altri.
La sua azienda ha un segreto per riuscire a reggere?
Il mercato interno è congelato, tocca guardare altrove. La vecchia Europa, la Francia, la Germania, stanno più o meno come noi. Bisogna andare su altri mercati dove i soldi ci sono. Oggi sta esplodendo il mercato immobiliare in Iran, ci sono cantieri ovunque. E quindi stiamo operando lì. Sapendo che si tratta di un mercato ballerino, oggi c’è domani chissà. Ma intanto, si prende quel che c’è. Come si prende l’Uzbekistan o il Kazakistan, dove oggi tutti i produttori del mio settore sono presenti. E la Cina, e la Thailandia, dove mi recherò nei prossimi giorni.
Cosa vorrebbe dalla politica, quale aiuto? Ammesso che la politica possa fare ancora qualcosa per qualcuno.
Della politica noi abbiamo bisogno: il sistema industriale vive se ha un paese alle spalle. E qui concordo con Squinzi, quando dice che abbiamo bisogno di stabilità subito. Ma la sensazione, nella periferia dove vivo io, è che il mondo politico di Roma passi il suo tempo in tv, nei talk show, senza rendersi conto della realtà del paese. Lo scollamento tra il palazzo e la gente è totale.
E’ quello che sostiene il Movimento Cinque Stelle. Lei come lo vede?
“E’ la fotocopia della Lega di vent’anni fa. Raccoglie il mal di pancia diffuso, che si traduce in voto di protesta. Credo che quello dei ‘’grillini’’ sia un successo che fotografa il “qui e ora”: non so se al prossimo giro chi ha votato Grillo lo rivoterebbe, specie se non portano risultati concreti.
E di Matteo Renzi, l’altra grande novità della politica, cosa pensa?
L’avevo votato alle primarie del Pd, senza conoscerlo. L’ho incontrato per la prima volta poco tempo fa, nel corso di una iniziativa qui in Veneto e ne sono rimasto entusiasta. Mi ha dato, per la prima volta da molto tempo, la sensazione che possiamo ancora avere una speranza, che l’Italia, con gente così, può ancora farcela. Se Renzi fosse stato candidato, avrebbe intercettato quel voto di protesta che è invece andato a Grillo e lo avrebbe reso fertile, utile a cambiare davvero il paese. Un’occasione persa, speriamo di recuperarla.
Nunzia Penelope