di Pier Paolo Baretta – Segretario confederale Cisl
1. Per uno di quei singolari scherzi che, talvolta, ci riserva la storia, la rivalutazione dello yuan del 2% ed il suo sganciamento dalla parità fissa con il dollaro, effettuati dal Governo cinese lo scorso 21 luglio (passati, inevitabilmente, inosservati agli occhi della opinione pubblica a causa dei concomitanti, tragici, atti terroristici di Londra), potrebbero rappresentare l’atto finale di una crisi economica fra le più persistenti degli ultimi decenni, sviluppatasi proprio a partire dal continente asiatico, ed iniziata nel mese di luglio di otto anni fa, a seguito della svalutazione del baht thainlandese.
Nel luglio del 1997, prima della svalutazione operata sul dollaro dal Governo della Thainlandia, il processo di integrazione commerciale e finanziaria appariva ancora ad uno stadio poco più che embrionale. L’estrema volatilità del listino dei titoli americani, in particolare dell’indice Nasdaq, rivelarono, di lì a poco, una forte condizione di interdipendenza delle borse nazionali dei paesi più sviluppati.
Erano, tuttavia, già allora presenti i sintomi di quell’economia, poi coniata con il termine “new economy” che, basandosi su una rivoluzione tecnologica straordinariamente diffusa e pervasiva, associa un’integrazione su larga scala dei mercati finanziari ad un marcato processo di internazionalizzazione delle economie nazionali, attuato tramite l’abbattimento delle barriere d’accesso alle importazioni e alle esportazioni con l’eliminazione o la riduzione dei dazi e delle tariffe del commercio estero.
Da allora il mondo è ulteriormente cambiato. Con la globalizzazione finanziaria e la connessa mancanza di regole del gioco, gli Stati nazionali hanno rinunciato al controllo dei movimenti di capitale. Con la conseguenza di una grande incertezza, sia sul mercato dei capitali, sia sul mercato del lavoro. Non potendo più assicurare la piena occupazione, la sfida portata avanti dalle politiche di riforma del mercato del lavoro, in tutti i Paesi più industrializzati del mondo, è stata quella di rafforzare la flessibilità nel mercato del lavoro, sostituendo progressivamente i tradizionali sistemi europei di protezione sul posto di lavoro.
L’idea di base fa perno sull’assunto che una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro sia in grado di stimolare la mobilità occupazionale. Tale paradigma assume la flessibilità come fattore fondamentale di gestione e di sviluppo del sistema – impresa. Un mercato del lavoro più flessibile è più adattabile, in sintesi. ai rapidi cambiamenti della domanda di beni e servizi prodotti dalle imprese e, quindi, maggiormente in grado di sostenere l’efficienza e la competitività del sistema economico, in un momento di congiuntura sfavorevole.
2. In questo quadro generale, la crisi dell’export italiano nel 2001-2003, solo in parte recuperata nel 2004, ha suscitato grandi preoccupazioni sulla competitività del Made in Italy. Una delle cause principali del peggioramento della competitività del nostro sistema produttivo viene, di solito, individuata nella straordinaria crescita della concorrenza su tutto l’arco dei prodotti del Made in Italy dei Paesi dell’Europa dell’Est e della Cina.
Negli ultimi anni i principali Paesi dell’Unione europea hanno fortemente contrastato la crescita competitiva di queste aree mediante una graduale riduzione della pressione fiscale sulle imprese per consentire loro di poter competere adeguatamente sui mercati esteri. Al tempo stesso, per rispettare i parametri imposti dal trattato di Maastricht nella loro evoluzione interpretativa, si tende ovunque a tagliare la spesa pubblica, ridimensionando i livelli e la qualità delle prestazioni sociali ed assistenziali.
La conseguenza di questa strategia è stata la riforma dei sistemi di welfare. Ma la riduzione dei fattori di coesione sociale, anziché costituire un vantaggio competitivo, ha aggravato le crisi economiche, addossandone il peso esclusivamente sui sistemi produttivi delle imprese e sugli Stati nazionali. Infatti, la flessibilità del mercato del lavoro, senza un’adeguata protezione sul versante del welfare e delle politiche sociali, determina pericolosi effetti macroeconomici, relativi alla diminuzione della domanda aggregata per consumi e risparmi delle famiglie.
3. In questo contesto è illusorio pensare di proteggere le economie degli Stati nazionali dall’assalto dei capitali esteri attraverso accordi neo – corporativi o consociativi, tanto più se le economie protette sono caratterizzate da una domanda interna insufficiente a sostenere lo sviluppo e se le tendenze demografiche suggeriscono, semmai, di promuovere la più ampia integrazione economica e sociale per arginare la crisi.
Molti Paesi dell’Unione europea hanno visto, gradualmente, ridurre il proprio livello di competitività nello scenario internazionale, sia per il processo di unificazione monetaria, che ha vanificato i vantaggi comparati derivanti dal differente rapporto di cambio delle monete, sia per l’affermazione competitiva dei Paesi dell’Europa orientale e del Sud Est asiatico. Il processo di unificazione monetaria europea e il conseguente passaggio alla Banca Centrale Europea delle funzioni in materia di stabilità e di controllo dei prezzi ha ridimensionato il ruolo del livello nazionale della contrattazione mentre, a livello nazionale, il decentramento funzionale dei poteri verso il sistema delle autonomie locali, ha spostato la definizione dei centri di costo verso il territorio.
Pertanto, occorre accompagnare il processo di integrazione commerciale e finanziaria ad una politica contrattuale comune, a livello sovranazionale, capace di contrastare efficacemente il fenomeno di dumping salariale e contrattuale, includendo le clausole sociali, combattendo l’economia sommersa, il lavoro precario, la fuga dal contratto di riferimento, e rendendo certi ed esigibili i diritti dei lavoratori.
4. Questa lunga premessa rende del tutto evidente come sia indissolubile l’intreccio tra politiche generali di sviluppo ed azione sociale finalizzata alla definizione delle tutele salariali e normative, alla gestione delle rigidità o delle flessibilità del mercato del lavoro. Il volano della crescita è direttamente correlato nel rapporto virtuoso tra accumulazione e redistribuzione. La scissione di questi due elementi che compongono la dimensione economica e sociale provoca un arretramento pesante dei fattori della competitività, della produttività, della qualità, di conseguenza dello sviluppo.
E’ questo un punto decisivo sia sul piano culturale che politico. La Cisl intuì, per prima, questa correlazione esplicita. Nei primi anni ’50, nel pieno dei problemi della ricostruzione dell’apparato produttivo e della struttura sociale del nostro Paese che erano stati fortemente segnati dalla seconda guerra mondiale; in piena crisi internazionale (la guerra di Corea), la Cisl tenne a Ladispoli il famoso (almeno per gli addetti ai lavori) Consiglio generale nel quale lanciò la contrattazione articolata. A rileggere oggi le motivazioni di quella scelta, si percepisce la modernità di quella impostazione. In sostanza, sostenne la neonata confederazione, non vi è emancipazione e sicurezza del lavoro, superamento dell’indigenza e della miseria, se non vi è una crescita generale del Paese, dell’industria. In definitiva, l’apporto nuovo che la Cisl portò nel dibattito economico e sindacale, fu la ferma convinzione che se non vi è accumulazione, non vi sarà redistribuzione, ma anche viceversa..
Ma non sta in questo il contributo più originale. Questo approccio è, certamente, decisivo, perché offre una scelta di campo ideologica chiara che produce una distinzione netta tra conflitto di interessi (il sale della democrazia moderna) e l’antagonismo di classe (il corto circuito delle relazioni). Il contributo più pregnante di conseguenze è consistito nella affermazione che questo intreccio non dipendeva esclusivamente da scelte politiche generali o da alleanze politiche che dessero vita a equilibri favorevoli (eravamo, si ricordi, in pieno dibattito sul patto del lavoro), ma, fondamentalmente, dallo svilupparsi della libera iniziativa sindacale, fondata sul negoziato. Da qui la necessità che la contrattazione sia diffusa a livello aziendale, territorio per territorio; sia, dunque, “articolata”.
5. Non ho bisogno di insistere sulla attualità di questa riflessione. Di fronte ai gravi e grandi problemi che la globalizzazione ci pone, il mondo del lavoro ha di fronte a sé la necessità di riorganizzare le fila di chiudere definitivamente con logiche antagonistiche e far riscattare la molla del rapporto virtuoso tra i processi di accumulazione del profitto, della produttività, della competitività e quelli della redistribuzione sotto forma di investimenti, reddito, benessere, stato sociale.
La lettura dell’intervento del dottor Bombassei, vicepresidente di Confindustria, alla assemblea di Federmeccanica della quale era stato presidente, autorizza, al di là di qualche cedimento alla propaganda, a forzare l’interpretazione verso la direzione qui indicata. (A questo proposito, mi si perdoni la parentesi, non posso non ricordare il dottor Biglieri, direttore dell’associazione, scomparso qualche settimana fa, amico – mi permetto di dire – di tante battaglie, da sponde diverse, ma mossi dalla comune convinzione della validità di quanto stiamo qui affermando).
Se così fosse la “sfida” lanciata va raccolta. Non solo perché Bombassei afferma che le relazioni industriali sono un fattore di competitività (può sembrare una affermazione ovvia, ma non è scontato sentirlo ripetere, anche in chiave teorica, in tempi come questi), ma, soprattutto, perché entra nel merito ed indica criteri e parametri che meritano essere presi in considerazione. Basti citare i quattro “indicatori” ai quali orientare le politiche salariali: “raggiungimento di obiettivi concordati; riconoscimento del merito individuale; coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa; condizioni locali dell’economia e del mercato del lavoro” Certamente ogni punto va approfondito ed articolato, per scioglierne le ambiguità ed definirne gli ambiti e le potenzialità, ma non si può dire che se gli attori sono in buona fede, non sia un terreno di lavoro utile.
Anche il riferimento alle politiche macro: fiscalizzazione di oneri impropri, con distinzione verso quelli assistenziali; sgravi contributivi sul salario variabile; alleggerimento degli oneri sul lavoro straordinario; riduzione del carico Inail, sono obiettivi interessanti. Certo, a noi spetta il compito di affiancarvi le nostre priorità e, nella fattispecie, la progressiva omogeneizzazione dei contributi previdenziali, la definizione dei criteri di accesso ad un lavoro straordinario che resti tale e non diventi ordinario e sostitutivo di processi occupazionali, piani di investimento in salute e sicurezza ecc., ma ciò che conta è progettare insieme il futuro del lavoro. Un ormai clamoroso esempio di ciò è dato dalla comune battaglia per la riduzione del carico contributivo del costo del lavoro. Quando il dottor Bombassei ricorda che per ogni 100 di retribuzione netta il costo del lavoro sale in Italia a 180, in Spagna a 159, in Gran Bretagna a 145, non pone solo un problema di comparazione, ma evidenzia come quella morsa produce il risultato di un lavoro troppo oneroso, ma al tempo stesso mal pagato.
6. C’è spazio, dunque, per avviare una stagione nuova? La risposta è sì, anche se sono ben chiare le difficoltà generali, sia politiche (il generale immobilismo a cui, giustamente, si accenna), che interne alle nostre organizzazioni.
Ma vi è un punto di partenza che va definito meglio e reso esplicito. La prima parte della legislatura, con la sciagurata battaglia sull’articolo 18 ci ha fatto toccare con mano il rischio che ci si affidi, da più parti, politiche, imprenditoriali e sindacali, alla illusione che la soluzione dei problemi acuti che il cambiamento ci pone dipenda dai rapporti di forza politici o sociali, o sorga spontanea dal terreno, senza l’intervento regolatore e la mediazione di soggetti collettivi di rappresentanza (istituzioni, sindacati – dei lavoratori e dei datori di lavoro, stakholders). Questa impostazione è vana e controproducente, ma trova molti adepti.
Dobbiamo, invece, immaginare un modello di governo globale che valorizzi sempre più la contrattazione, il negoziato tra le parti, come valore costitutivo, fondante dei rapporti sociali, come fattore di regolazione e di sviluppo e che sia, pertanto, basato, il più possibile, su processi di concertazione e dialogo sociale fra le istituzioni politiche e le parti sociali.
7. Se a medio termine la prospettiva della contrattazione collettiva è quella di riuscire ad ampliare il suo ambito di applicazione, fornendo risposte collettive ai nuovi bisogni individuali che un mercato del lavoro sempre più segmentato e parcellizzato propone, è, al tempo stesso, necessario avviare, in un labirinto di proposte, percorsi di lavoro ed esperienze concrete a partire, dunque, dalla convinzione che la discussione per la riforma del modello contrattuale dovrà concentrarsi sulle questioni dell’accumulazione del capitale e della distribuzione del reddito nazionale.
Come abbiamo rilevato, è questo un nodo irrisolto, ma che è urgente affrontare soprattutto in Europa, dove l’equilibrio delle partite correnti rende indispensabile contrastare la “crescita zero” ed il ristagno dell’economia mediante il sostegno dei redditi familiari e l’incremento degli investimenti produttivi, favorendo anche la crescita dimensionale delle nostre micro – imprese.
Per realizzare questi obiettivi occorre qualificare meglio il nostro modello capitalistico, mediante un quadro legislativo comunitario e nazionale che affronti alcune questioni preliminari: un modello di public company europeo, un sistema di welfare europeo minimo integrato e una democrazia economica compiuta. Sono questi aspetti che debbono trovare maggiore spazio anche nella riflessione delle associazioni degli imprenditori. Non solo di Confindustria!
Lo scenario che questi temi evoca deve diventare un comune terreno di lavoro. In tal modo opereremo il necessario salto culturale che “modernizzi” l’intero sistema, condizione fondamentale e quadro di riferimento generale nel quale collocare la realizzazione degli obiettivi di merito e specifici sopra citati. Per fare degli esempi: la penosa vicenda della legge sul risparmio, lasciata marcire nei cassetti bipartisan, ma senza che ci siano state reazioni scandalizzate da parte imprenditoriale (ed anche sindacale, in verità), l’assenza di un quadro condiviso e di una azione comune tra le parti sociali sullo Statuto dei lavori a completamento della legge 30, fa riflettere.
Al contrario, l’avviso comune e le proposte di emendamenti predisposte da 22 sigle tra sindacati ed imprenditori sulla previdenza complementare, il precedente avviso comune sulla società di Statuto europeo, il dibattito, ancora ambiguo, ma fertile sulla responsabilità sociale delle imprese, fanno ben sperare e indicano la strada da perseguire per poter finalmente accedere in maniera non tecnico – burocratica al nodo della riforma delle relazioni industriali.
8. Ciò significa, a livello nazionale, che dobbiamo accelerare la riforma del modello e degli assetti della contrattazione. Non è vero quanto afferma Bombassei, che i sindacati sostengono la centralità del contratto nazionale. Almeno per quanto ci riguarda difendiamo il contratto nazionale e la sua insostituibile importanza. Ma, nel nostro comune sindacalese, sappiamo bene cosa significa centralità, assomiglia troppo ad esclusività. Invece bisogna partire dalla considerazione che il contratto nazionale non è più in grado di tutelare, da solo, il potere d’acquisto dei salari e degli stipendi, e determina rigidità all’espansione della dinamica retributiva nei contesti locali più floridi. Il principio della moderazione salariale viene poi ulteriormente condizionato dall’estendersi dell’economia sommersa e del lavoro nero e dalla stessa destrutturazione del mercato del lavoro che la contrattazione affidata al solo livello nazionale non è riuscita ad arrestare.
In queste condizioni si pone l’esigenza di una profonda revisione del modello contrattuale basato sui due livelli. Bisogna, per un verso, estendere il campo di applicazione dei contratti nazionali, migliorando la definizione dei grandi istituti normo – economici del rapporto di lavoro in rapporto alla crisi dei tradizionali confini merceologici, superati dalla organizzazione del lavoro post fordista.
Si pensi a quelle grandi piattaforme logistiche che sono i nuovi centri commerciali, le grandi stazioni, gli aeroporti, gli ospedali, le multiutilities. Si pensi ai processi di filiera derivanti dalla scomposizione del ciclo (esternalizzazioni, outsorcing, decentramento e/o delocalizzazioni). Si pensi trasporti e al turismo, due settori che da soli operano in più di 80 contratti nazionali. Ma la stessa idea che i contratti nazionali oggi esistenti sono ben oltre 400 rende evidente la clamorosa distorsione in atto. Ci dobbiamo porre il problema della ridefinizione degli ambiti di applicazione per grandi aggregati (industria manifatturiera o civile, energia, servizi all’impresa, servizi all’utenza, ecc.).
9. Per altro verso, occorre collegare la definizione delle modalità di esecuzione del rapporto di lavoro (orari di lavoro, flessibilità quantitative e qualitative, diritti sociali, gestione del tempo libero) alle politiche settoriali del contesto aziendale e locale, sulle quali incidono i livelli distributivi delle economie regionali e locali le loro politiche di sviluppo.
Il decentramento contrattuale è, dunque, una necessità. Oggi il secondo livello è realizzato solo nel 30% del mondo del lavoro. Questo dato da solo dimostra la impraticabilità della stessa strategia proposta proprio da Bombassei. La sua diffusione, ovvero la sua esigibilità, è il punto di partenza, il nodo di scambio tra le diverse esigenze in campo. Ovvio che per esigibilità non si intende la certezza di concludere un accordo, ma la possibilità di presentare richieste ed avviare negoziati sì. Non basta dire: dove ci sei lo fai, perché ciò significa affidarsi ai soli rapporti di forza, ma allora ricadiamo negli errori che vogliamo superare. La teoria del pendolo non funziona più, ci vuole una dimensione strutturata di relazioni. E’ altrettanto ovvio che lo stesso discorso non può essere fatto allo stesso modo per aziende di dimensioni così diverse come quelle presenti nel tessuto italiano. Ma a sbrogliare la matassa ci aiuta la bilateralità, la settorialità, la filiera, la territorialità. So bene che l’obiezione è che si sovrappongano livelli. Bisogna essere chiari da entrambe le parti. Il nostro obiettivo è un sistema contrattuale a due livelli: uno nazionale ed uno aziendale o (o non e) settoriale o territoriale. Chi sceglie? La discussione è aperta e può approdare a soluzioni concordate. Ma, al tempo stesso, è bene che gli imprenditori siano altrettanto chiari: sono preoccupati delle sovrapposizioni perché pensano al rischio di tre livelli o perché, in cuor loro, pensano ad un solo livello?
La certezza della scelta dei due livelli che si integrano, in una organizzata divisione dei ruoli, consente di affrontare consensualmente anche il delicato tema della non sovrapposizione delle materie, ovvero del famoso “ne bis in idem” tanto caro al professor Mortillaro. Ciò sia in ordine agli aspetti normativi: la gestione degli inquadramenti professionali, della flessibilità degli orari e la loro migliore rispondenza alle specificità. Una risposta a questo tema, posto, dall’intervento di Bombassei, può essere trovata nella teoria dei menù. La contrattazione, al livello prescelto, definisce dei menù di scelta di variabili possibili sui diversi aspetti della condizione di lavoro. All’interno di questi menù sia il lavoratore, anche individualmente, sia il datore di lavoro, scelgono quello che viene ritenuto più rispondente alle proprie esigenze, senza che ciò renda necessarie ulteriori contrattazioni, né collettive, né individuali.
Andranno poi definite materie che, indipendentemente dal livello nel quale si affrontano, escono dal tradizionale gioco rivendicativo o di scambio per entrare, a pieno titolo, nel circuito partecipativo. E’ questo della partecipazione, inteso come snodo moderno delle relazioni industriali, un terreno ancora tutto da esplorare, ma che appare sempre più attuale, anche in forza del fatto che le imprese chiedono al lavoratore qualcosa in più del semplice apporto fisico. Anche laddove esiste instabilità nei rapporti di lavoro o nuovo sfruttamento nelle condizioni, la tipologia del processo produttivo e la natura stessa della competizione richiedono al lavoratore una…immedesimazione col proprio lavoro. Per ripetere la formula demagogica: ai lavoratori viene chiesto di lavorare come soci, ma si continua a trattarli come salariati.
Questa contraddizione ci consente di aprire le porte ad un nuovo modo di intendere le relazioni industriali. Si può fermarsi alla soglia di questa porta e, come fanno alcuni, teorizzare, addirittura, il doppio sfruttamento o, come pensiamo noi, varcare quella soglia e porre il problema della coerenza tra un modello produttivo che richiede partecipazione ed una prassi che la nega. Le condizioni dell’organizzazione del lavoro rendono improponibile, a mio avviso, una qualche riedizione dell’antagonismo. Dunque conviene, per chi rappresentiamo, andare avanti e alzare la posta a favore di una maggiore partecipazione. Conviene, come direbbe Baglioni, andare oltre “la soglia dello scambio”. Come si percepisce, la strada è lunga, ma decisiva. Ci si può accontentare di incamminarci partendo da una realistica visione di ciò che è, al momento, praticabile in chiave partecipativa. Penso alla formazione dei lavoratori (professionale e non), alla salute e sicurezza, alla mutualità integrativa, alla informazione e consultazione non solo delle conseguenze, ma, soprattutto, delle scelte strategiche e via dicendo.
Infine, il salario. Il tema non è il salario per obiettivi, che a me sembra acquisito, ma lo snodo potere di acquisto produttività. Considero sbagliata la teoria che affascina alcuni, penso alla Fiom, di riportare quote di produttività nel contratto nazionale, ma non c’è dubbio che se non si diffonde il secondo livello ed esso non ridistribuisce la produttività conseguita si porta acqua a quel mulino. Al tempo stesso mi chiedo, al contrario, se non sia necessario porsi il problema di come una quota di potere di acquisto debba slittare dal centro verso la periferia. Non tiriamo fuori, per favore, il tabù delle gabbie salariali, che non c’entra niente. Quando la busta paga è strutturata in modo tale che oltre il 70% è imputabile al contratto nazionale, che fatica a star dietro all’inflazione programmata, ed il rimanente è suddiviso, in parti pressoché equivalenti, tra secondo livello ed elargizioni di mercato, cioè gli aumenti di merito a discrezione del capo, il sindacato ha perso il suo potere di autorità salariale.
10. C’è dunque, molto, ma interessante, lavoro da fare. Dietro il merito fanno capolino importanti questioni di assetto e di tendenza. Ma, anche, la decisiva questione della autonomia contrattuale delle parti sociali. La condizione asfittica nella quale versa la contrattazione fa male alle imprese ed ai lavoratori. Fa male alla società. Contro il tanto vituperato, giustamente, immobilismo politico, la risposta sta nel dinamismo sociale. Se imprenditori e sindacati daranno vita ad un negoziato che ridisegni il negoziato stesso rimettono in moto una situazione che tende ad essere imballata. Guglielmo Epifani si è chiesto: cosa diciamo al cassintegrato, che la nostra priorità è la riforma del modello contrattuale? Sì, glielo dobbiamo dire, perché se il sindacato non contratta non vive, se non negozia non tutela, non difende e non emancipa. Sembrerà un po’ demagogico, ma è la verità. Se non c’è crescita non c’è contrattazione, ma se non c’è contrattazione non c’è crescita. Quando parliamo di un nuovo 23 luglio intendiamo esattamente questo.