di Mario Ricciardi, Docente di relazioni industriali all’Università di Bologna
Il dibattito sulla flessibilità del lavoro prosegue, in questa stagione pre elettorale, ed è opportuno che sia così, perché la flessibilità (e la precarietà) del lavoro rappresenta uno dei problemi nodali della situazione sociale del Paese.
A proposito della legge 30 , varrebbe forse la pena di premettere un’osservazione che sta per così dire ” a monte” della discussione su come “correggerla e integrarla”, come scrive Treu, abrogarla, come dice qualcun altro, o mantenerla così com’è, come sostiene qualcun altro ancora.
Il fatto è, a mio parere, che quella legge, come lo stesso Libro bianco, fa parte, al di là di ogni valutazione di merito, di una scommessa perduta. La scommessa era quella, evidente all’inizio della legislatura ed ancor prima nella campagna elettorale, che l’Italia stesse per entrare in una fase di forte crescita economica e che per sostenerla ed approfittarne fosse necessaria una consistente svolta liberista, che togliesse di mezzo gli ostacoli “consociativi”, (concertazione), riducesse drasticamente il peso dei sindacati e dello Stato/pubblica amministrazione e desse finalmente al “mercato” il bastone di comando. E’ ormai evidente che quella scommessa è fallita, perché la crescita economica non c’ è stata, perché quella liberista non era, e non è, la ricetta giusta, e perché quella praticata in questi anni è stata una politica un po’ troppo (come dire?) incongruente e pasticciona per produrre i risultati che volevano i suoi sostenitori.
Alla fine, la legge trenta è rimasta come una specie di relitto isolato di quel disegno, che per tanti altri aspetti è rimasto incompiuto.
In presenza di un ristagno dell’economia, l’ipotesi che il mercato del lavoro fosse in forte espansione, al punto da potere/volere utilizzare perfino le fantasiose forme di flessibilità “di nicchia” che la legge proponeva si sono rivelate illusorie. Di fronte alla crisi, anche la speranza che flessibilizzare ulteriormente il mercato del lavoro potesse indurre i datori di lavoro a regolarizzare il lavoro sommerso è risultata eccessiva. Probabilmente, quella parte della legge che ha ridimensionato tutele e prerogative contrattuali ha prodotto qualche ulteriore indebolimento dei sindacati, ma senza reali vantaggi per le imprese, e comunque non tanto quanto i liberisti di casa nostra avrebbero sperato. Resta da vedere, naturalmente, quali effetti la legge abbia prodotto laddove è stata applicata, e quali siano le distorsioni (peraltro già da tempo evidenziate da gran parte degli studiosi) che occorre eliminare e correggere.
E’ però evidente, ormai, che di fronte al Paese si pongono traguardi ben più complessi di quello di escogitare scorciatoie flessibilizzanti. Il problema è quello di far ripartire davvero la crescita e, sul versante sociale e del mercato del lavoro, di promuovere l’occupazione stabile e il trabajo decente, come l’ha battezzato il leader dell’Oit Somavia. Il che non significa, naturalmente, che non vi sia bisogno di forme di lavoro flessibile, ma ricondotte ad una quantità fisiologica, a tipologie lineari e razionali e a condizioni di lavoro e di vita che diano un dignitoso presente ( e un decoroso futuro) alle persone. Tanto nel lavoro privato che nel lavoro pubblico.
Nel lavoro pubblico, appunto. Perché anche qui, dove la legge 30 non si applica, se non molto marginalmente (e dove, dunque, non si possono certo addossarle “colpe” di aver distorto il mercato del lavoro) il problema della precarietà esiste, eccome. I termini della questione sono abbastanza complessi, ma possono essere così sintetizzati. L’introduzione di forme di lavoro flessibile è stato uno dei corollari della privatizzazione del lavoro pubblico. Esso era stato pensato come strumento per dare alle pubbliche amministrazioni, nella logica e nell’ottica della contrattualizzazione, uno strumento in più per raggiungere l’obiettivo dell’efficienza. Per questo negli anni novanta accordi quadro e contratti di comparto hanno disciplinato alcune tipologie di lavoro flessibile, come il tempo determinato, il part-time, lo stesso lavoro interinale. Tipologie che le amministrazioni hanno dimostrato di apprezzare fin dall’inizio in misura variabile, a seconda delle diverse amministrazioni e delle diverse esigenze di flessibilità. Accanto a queste flessibilità “nominate”, la P.A. ha potuto disporre poi di un’ulteriore chance, quella prevista dall’art. 7 co.6 del Dlgs 165/2001, il quale prevede che “per esigenze cui non possono far fronte con il personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali a esperti di provata competenza, determinando preventivamente durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione”. Si tratta, come si vede, nell’un caso e nell’altro, di forme di flessibilità circoscritte e delimitate. Per le collaborazioni è la legge stessa a delimitarne i confini. Per le altre flessibilità basta leggere i contratti per comprenderne le dimensioni.
A un certo punto, però, le cose hanno cominciato a funzionare in maniera diversa. Flessibilità e (soprattutto) collaborazioni si sono ampliate in maniera abnorme. Le dimensioni esatte del fenomeno sono di fatto sconosciute. I sindacati parlano di 400.000 precari, le cifre ufficiali sono più basse, ma si può comunque considerare che intorno a un decimo degli addetti “ufficiali” della P.A. siano, a vario titolo, “precari”. La crescita del fenomeno è stata naturalmente incentivata dal blocco del turn over che da molte leggi finanziarie vige nella pubblica amministrazione. Accanto a questo, non si può tuttavia sottovalutare il fatto che il ricorso al lavoro precario (ed alle esternalizzazioni) può essere in parte conseguenza di una ricerca di flessibilità che le amministrazioni non possono (o non vogliono) ottenere attraverso i normali strumenti di gestione del personale che le leggi e i contratti mettono a loro disposizione. La discrezionalità insita in queste forme di reclutamento consente, inoltre, forme di flessibilità “politica” e/o clientelare molto più difficilmente praticabili con le forme ordinarie.
Fatto sta che ormai in moltissime amministrazioni il lavoro precario si è incuneato nell’organizzazione, e spesso è diventato indispensabile per far funzionare i servizi, soprattutto negli enti locali, nell’università, negli enti di ricerca, ma anche nella sanità, dove “contrattisti” di vario genere sono preposti ad attività e prestazioni di grande delicatezza. Ciò pone naturalmente problemi di diversa natura. Da un lato, la precarietà stride con le esigenze di qualità, continuità, imparzialità che dovrebbero essere proprie delle pubbliche amministrazioni. Dall’altro, non ci si può nascondere che i “precari” sono ormai l’unica forma di presenza di persone giovani in una pubblica amministrazione i cui addetti stanno inesorabilmente invecchiando: paradossalmente, i soggetti che più potrebbero essere portatori di innovazione e protagonisti di una formazione aggiornata, non possono esserlo, perché non fanno parte a pieno titolo dell’amministrazione.
Quali soluzioni dare a questa situazione? Una prima risposta non può che riguardare la pubblica amministrazione per come essa è, o è diventata. La precarietà non è una risposta efficace non solo per i lavoratori, ma nemmeno per la qualità dei servizi. Bisogna smetterla di considerare la pubblica amministrazione come un inutile peso, riaprire il turn over accompagnandolo con idonee politiche formative, e utilizzare appieno e in maniera corretta gli strumenti di gestione flessibile del personale (in termini di mobilità e di carriera) che già esistono nei contratti o che possono essere attivati mediante idonei accordi tra le parti sociali.
Il problema del precariato, cresciuto oltremisura, non va affrontato con tentatrici sanatorie generalizzate, che sono sbagliate e controproducenti. Occorre studiare un percorso graduale di riapertura di procedure selettive, a partire dai settori in cui la presenza dei precari serve a tenere in vita i servizi, che riassorba gradualmente il fenomeno, dopo di che occorrerà un rigoroso ritorno alla lettera della legge e degli accordi, per riportare questi fenomeni entro una dimensione fisiologica e residuale.