Il fiume carsico del salario minimo si è già ri-sommerso. Rilanciato nel corso della tre giorni organizzata dalla Cgil a Bologna lo scorso fine settimana, gratificato da titoli di apertura sui principali quotidiani e dibattiti nei talk, in un paio di giorni è scomparso dalla scena. Non è nei piani del governo: Draghi non ne ha fatto mai cenno nei suoi incontri con i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil; non fa parte delle materie indicate dai sindacati stessi come possibili contenuti dell’ipotetico Patto per l’Italia se mai si farà; non è citato nella Nota di aggiornamento al Dpf (a differenza dello scorso anno, quando la Nota richiamava il Ddl firmato dall’allora ministro del Lavoro Nunzia Catalfo). Non si capisce bene, insomma, di chi sia figlia questa improvvisa rinascita del salario per legge, tirata in ballo dai leader di 5Stelle e Pd, Giuseppe Conte ed Enrico Letta, dal palco della Cgil, e tutto sommato non respinta da Maurizio Landini, loro interlocutore in occasione del dibattito di apertura di Futura2021.
Per ricordare brevemente: il salario minimo diventa un tema nel corso del (breve) governo giallo rosso, tanto che Nunzia Catalfo, che al Lavoro ha sostituito Luigi Di Maio, lo mette nero su bianco in un ddl. Ma quella della grillina Catalfo non è la sola proposta esistente, ce ne sono anche a firma del Pd, che a sua volta ritiene necessaria una paga minima oraria per legge, come antidoto alle basse retribuzioni italiane. Inoltre, c’è una direttiva europea che suggerisce ai paesi membri che ne siano sprovvisti di introdurre un tetto minimo determinato per via legislativa alle retribuzioni. Nell’autunno 2020 il parlamento fa propria la direttiva Ue, la (ex) titolare del Lavoro fa il suo ddl, e la cosa sembra avviata a rapida soluzione. Ma cosa ne pensano i diretti interessati, e cioè sindacati e Confindustria? Non ne pensano bene: sul fronte sindacale si obietta che un salario determinato per legge finirebbe per rendere inutili i contratti nazionali, ai quali oggi spetta per l’appunto definire i livelli delle retribuzioni. Inoltre, i contratti prevedono altre voci oltre a quella della paga base, e numerosi diritti non ricompresi nel salario minimo. Infine, ci sarebbe il rischio assai concreto che una gran parte di aziende finisca per emigrare dal contratto nazionale, a quel punto più costoso, preferendo applicare il salario minimo, più conveniente, restando comodamente nel perimetro della legalità. Un’altra parte delle imprese teme invece che quei 9 euro – che dovrebbero costituire il tetto minimo sotto il quale non si può scendere – siano eccessivi rispetto alle medie nazionali, causando un aumento del costo del lavoro; anche considerando che circa 4 milioni di lavoratori (su 23 milioni) sono oggi sotto quella soglia. Sta di fatto che col cambio dal Conte Bis al governo Draghi, al Lavoro arriva Orlando, esce Catalfo, e con lei esce anche il Ddl, che finisce in disparte in qualche cassetto.
In tutto questo coro di ”no”, va fatto un distinguo per la posizione di Maurizio Landini. Il leader della Cgil è abbastanza attratto dal salario minimo, non gli dispiace per niente, e tuttavia non lo ha mai concretamente sponsorizzato. Un po’ perché sa bene che entrerebbe in rotta di collisione con Cisl e Uil, un po’ perché le stesse categorie della Cgil si sono più volte dette contrarie (posizione peraltro riconfermata nel corso del dibattito di Bologna, in risposta alla reale, o presunta, apertura di Landini alla proposta di Conte e Letta). Un po’ infine, perché non è chiarissimo nemmeno al leader Cgil quale sarebbe la reale utilità di un intervento legislativo sul salario: è vero che in Italia abbiamo retribuzioni da fame (ricordo, a questo proposito, che la retribuzione media nazionale è quasi perfettamente sovrapponibile alla cifra indicata dall’Istat come soglia della povertà), ma il salario minimo risolverebbe davvero?
Va detto, inoltre, che la direttiva europea di cui si parla non “obbliga” i paesi a una definizione legislativa dei minimi salariali, ma afferma che anche una contrattazione robusta ed estesa (come in Italia, appunto, che ha addirittura due livelli di contrattazione, o nei paesi del nord Europa, che infatti non hanno il salario per legge) è già sufficiente a garantire minimi adeguati a tutti. Ma qui si entra in un altro antico ginepraio, cioè l’estensione erga omnes della validità dei contratti. Tema di non facile soluzione: per vari e complessi motivi giuridici, ma anche e soprattutto per la mancanza di una legge sulla rappresentanza che stabilisca il peso delle varie parti sociali e, di conseguenza, la validità dei contratti da esse sottoscritti. Altrimenti, vale tutto.
Maurizio Landini, nel corso del dibattito di Bologna, ha rispolverato proprio questo argomento, indicandolo come preliminare anche rispetto all’eventuale salario per legge. Dice Landini, in sintesi, che oggi il vero problema, l’elemento negativo che deprime maggiormente le retribuzioni, sono i contratti cosiddetti ”pirata”, che si riproducono ormai come i Gremlins. Una legge sulla rappresentanza taglierebbe fuori dalla contrattazione tutto questo marasma di sigle inesistenti e “piratesche”, consentendo un taglio drastico al numero dei contratti oggi censiti dal Cnel: dagli attuali 900 a circa 200. A quel punto si avrebbe un quadro chiaro e trasparente sia dei contratti sia delle retribuzioni, superando così, probabilmente, anche il problema del salario minimo.
E qui veniamo infine al vero succo di tutta la questione: di legge sulla rappresentanza si parla da circa 8 anni, il Testo Unico sottoscritto da Cgil, Cisl Uil e Confindustria risale al 2014. Da allora, ci si è avvitati in un labirinto di rimpalli per decidere a chi toccasse calcolare il “peso” delle varie organizzazioni. Di volta in volta il compito è stato affidato al Lavoro, all’Inps, al Cnel, alle Camere di Commercio per quanto riguarda le imprese, eccetera. E malgrado sindacati e imprese dichiarino di voler mettere ordine nella Torre di Babele delle rappresentanze (definizione usata recentemente dalla Confindustria, che lamenta il massimo disordine anche nel proprio settore), nessuna cifra su iscritti, tessere o associati è mai stata resa nota. E nessuna legge, infatti, ha mai visto la luce. Possibile mai che in otto anni non sia mai venuti a capo del problema? O non sarà che ci si accontenta di far riemergere di tanto in tanto, carsicamente, l’argomento, ma senza mai assumersi l’onere di affrontarlo davvero?
Nunzia Penelope