Se analizziamo l’Enciclica di papa Francesco Fratelli tutti nell’ottica delle problematiche connesse al lavoro – anzi, se compiamo una ricognizione proprio cercando, come parola-chiave, il termine “lavoro” – ci accorgiamo che della questione parlano soprattutto i capitoli terzo e quinto. Sono quelli che affrontano, rispettivamente, i temi dell’amore universale e della politica. In particolare, il punto in cui si parla di lavoro nella maniera più chiara e appassionata è il paragrafo 162, posto quasi al centro dell’Enciclica. Vale la pena di leggerlo per intero.
Dice il papa: “Il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze. Questo è il miglior aiuto per un povero, la via migliore verso un’esistenza dignitosa. Perciò insisto sul fatto che «aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro». Per quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri ad ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno. Infatti, «non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro». In una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo”.
Il paragrafo s’inserisce nel capitolo quinto, dedicato come accennavo a “La migliore politica”. In effetti l’approccio alle questioni del lavoro, qui, è concreto: riguarda quanto è possibile fare nello specifico per rimediare a quelle condizioni di diseguaglianza che impediscono all’essere umano di vivere un’esistenza dignitosa. Appare poi chiaro, dalle parole citate, che nell’ottica dell’Enciclica la povertà non si affronta, in maniera strutturale, attraverso l’elemosina o il sussidio, ma appunto garantendo il lavoro. Il lavoro, dunque, non è solo il mezzo per procurarsi un sostentamento, ma è soprattutto l’occasione per esprimere sé stessi, per contribuire con le proprie capacità a un progetto comune e per operare, ciascuno con il proprio impegno, al miglioramento del mondo.
Non si tratta certo di una novità. È la ripresa – anche letterale, come si vede dalle citazioni riportate nel paragrafo 162 – di temi sviluppati nelle precedenti encicliche Evangelii Gaudium (2013) e Laudato si’ (2015). Ora però la questione del lavoro viene inserita organicamente all’interno di un discorso che collega più strettamente promozione della dignità umana, sviluppo economico globale, azione politica.
Anzitutto, infatti, ciò che impedisce quella crescita umana che si realizza anche e soprattutto attraverso il lavoro è la sua trasformazione – anzi, il suo pervertimento – in una forma di schiavitù, in un’occasione di sfruttamento (come viene detto esplicitamente nel paragrafo 188). Ciò avviene quando, nell’attività imprenditoriale, prende il sopravvento la volontà di ottenere un profitto a ogni costo. Come viene detto nel paragrafo 123, il problema non sta nell’arricchimento dell’imprenditore, grazie alle sue idee e al suo lavoro. Il problema è che lo faccia a spese degli altri. È la logica dello sfruttamento indiscriminato che qui viene messa in questione. Essa si realizza in quelle forme di neoliberismo che costituiscono uno sviluppo unilaterale e pericoloso del pur legittimo esercizio della libertà economica. Gli esiti di quest’approccio – la disoccupazione, il restringimento dell’accesso al mondo del lavoro, l’aumento della povertà – sono messi in evidenza nel paragrafo 110.
C’è invece un limite che permette di contrastare questa logica di sfruttamento. È un limite che si trova nelle cose. Esso consiste (come dice ancora il paragrafo 123) nel fatto che vi sono beni che non possono essere né alienabili né privatizzabili. Non è in questione, qui, la legittimità della proprietà privata. Quest’ultima però, nella prospettiva che l’Enciclica sviluppa, dev’essere sempre subordinata alla destinazione universale dei beni della terra e al diritto di tutti gli esseri umani al loro uso. Se non si rispetta questo limite, se il pianeta non assicura casa, terra, lavoro a tutti, non vi potrà essere pace fra le genti (come afferma chiaramente il paragrafo 127).
Qual è insomma la visione del lavoro che emerge dall’Enciclica Fratelli tutti? È una concezione che vede il lavoro come una risorsa, per l’essere umano e per la società. Esso però dev’essere espressione di un agire che si pone in armonia con il creato, non già che finisce per distruggerlo. Si tratta poi di un lavoro che dev’essere volto a realizzare un’effettiva collaborazione fra i vari soggetti che esso coinvolge: imprenditori, lavoratori, fruitori. Da qui deriva la sua valenza – anzi, la sua centralità – politica. Si tratta però di una politica che va ben al di là dell’alternativa novecentesca fra capitalismo e comunismo, ovvero – per guardare all’oggi – fra neoliberalismo e populismo. È semmai un tentativo di cambiare il mondo proprio partendo da un’idea diversa del lavoro, dei suoi effetti, delle sue relazioni.
Adriano Fabris