Tutti americani? La crisi che imperversa dal 2008 non ha soltanto desertificato l’occupazione, sfiancato le imprese, svuotato le casse statali, ai quattro angoli d’Europa. Più in profondità, sta modificando, in misura non facilmente reversibile, il modello sociale europeo. Cominciando dal sindacato e dalla protezione legale dei lavoratori, anche di quelli ipertutelati da contratti a tempo indeterminato. Ci sono segnali contrastanti, come l’introduzione del salario minimo obbligatorio in Germania, ma la tendenza di fondo sembra segnata: il mondo del lavoro europeo, anche nella sua componente più forte, i lavoratori a contratto fisso, diventa sempre meno europeo. E sempre più americano: meno contratti, più flessibilità, meno diritti.
Nel 2008, quasi 2 milioni di lavoratori portoghesi del settore privato erano coperti da contratti collettivi. Oggi, l’ombrello si è ristretto a 300 mila. L’esempio Usa, dove i contratti collettivi non arrivano a tutelare neanche il 13 per cento dei lavoratori, è ancora lontano. I dati, però, indicano un brutale ridimensionamento dello spazio occupato dal sindacato, nella sua funzione principale, cioè i contratti, nell’arco di un solo anno, fra il 2009 e il 2010. Non in Italia, a dire il vero, nella misura in cui il dato è affidabile: la copertura del contratto collettivo, nel nostro paese, arriva, almeno formalmente, al 98 per cento. Ma in Spagna sono bastati i primi, durissimi, dodici mesi di recessione per vedere la copertura dei contratti collettivi scendere nettamente dal 73,7 al 70,3 per cento dei lavoratori. Anche la Germania dei sindacati potenti e dell’economia che marcia ha subito il contraccolpo: la copertura dei contratti collettivi (soprattutto nel settore dei servizi) è scesa dal 61,7 al 59,8 per cento dei lavoratori a tempo indeterminato.
Stiamo, infatti, parlando dei lavoratori che godono di tutte le tutele di un posto fisso e un contratto di lavoro a tempo indeterminato. O di quelle che erano le tutele di un posto fisso. Irlanda e Portogallo, in questi anni, hanno congelato il salario minimo obbligatorio, la Grecia lo ha tagliato di un quarto. In Spagna, c’è chi sostiene che i segni di rianimazione che mostra l’economia in questi mesi siano frutto delle riforme che hanno fatto saltare le restrizioni sui licenziamenti collettivi e individuali e hanno prolungato fino a quattro anni la durata potenziale dei contratti a termine. I risultati si vedono nella speciale classifica che l’Ocse, l’organizzazione che raccoglie i paesi più industrializzati, elabora ogni anno. E’ una classifica che valuta i paesi, a seconda delle protezioni offerte ai lavoratori permanenti contro i licenziamenti collettivi e individuali, secondo una scala da 0 a 6, dove, più alta la protezione, più alto è il punteggio. Gli Usa, ad esempio, sono a 1,17, la Germania a 2,87. La classifica vale quel che vale: parametri e punteggi sono approssimativi. Ma indicativi.
In Germania, negli ultimi anni la protezione dei lavoratori “forti” è aumentata: da 2,67 a 2,87. E’ nei paesi della periferia europea che è crollata. In Italia, nel giro di un anno, fra il 2012 e il 2013, siamo passati, anche con la riforma Fornero, da 2,762 a 2,512. In Spagna la protezione è crollata a 2,048. In Portogallo, resta più alta (frutto anche dell’antico corporativismo della dittatura) ma la caduta è anche più verticale: da 4,583 degli anni post-Salazar a 3,185.
I teorici della flessibilità vedono in questi sviluppi dei segnali positivi: aziende più competitive, mercato del lavoro più fluido. Anche fra di loro, tuttavia, c’è chi guarda con preoccupazione, soprattutto all’erosione del potere sindacale. Non è un omaggio alla vecchia sinistra, ma un calcolo puramente strumentale. Pur convinti che il decentramento della contrattazione sia la ricetta del futuro, gli esperti del Fondo monetario internazionale, a Washington, non sono affatto sicuri che sia lo strumento migliore per assicurare, in tempi brevi, la moderazione salariale necessaria al recupero di competitività, dice un sofferto bilancio, compiuto nei mesi scorsi, delle ricette anti-crisi. A questo scopo, accordi nazionali con il sindacato (come quelli italiani degli anni ’90) appaiono, agli uomini del Fmi, uno strumento assai più solido ed efficace. Anche se più difficili da raggiungere.
Maurizio Ricci