Il negoziato per il rinnovo, o rinnovamento, del contratto dei metalmeccanici non dà segni di vita. Le parti si sono scambiate corposi documenti, ma l’ultima volta che si sono incontrate non hanno definito una nuova data del negoziato. Nulla di allarmante, tutto ciò rientra nella prassi comune di queste trattative, ma l’attesa comincia a pesare. Quello dei metalmeccanici non è infatti uno dei tanti contratti, è il più importante politicamente parlando, da sempre punto di riferimento per l’intera stagione contrattuale. Il settore è il più pesante economicamente, quello con maggiore occupazione, più di un milione e mezzo di lavoratori, e finisce sempre per essere una pietra di paragone nel mondo delle relazioni industriali.
Al momento la contrapposizione più forte sembra vertere sul capitolo dell’aumento salariale, che forse non è per le due parti quello più rilevante, proprio perché sindacati e Federmeccanica stanno da quasi dieci anni provando a realizzare un vero e proprio rinnovamento del contratto, innovando in profondità la parte normativa oltre che quella economica, ma che, nel bene e nel male, rappresenta la parte più rilevante anche di questo contratto. Non è una guerra solo di numeri, ma si confrontano due differenti filosofie. Sui numeri l’unica certezza è la richiesta di fondo dei sindacati, che hanno indicato un aumento di 280 euro lordi al mese per il livello C3. Federmeccanica ha risposto negativamente, affermando che tale richiesta rappresenta una “devianza” rispetto alle regole stabilite dagli accordi interconfederali. Non hanno parlato di violazione, i vertici dell’associazione degli industriali del settore, ma di semplice devianza. A loro giudizio, infatti, l’aumento salariale dovrebbe essere calcolato sulla base dell’indice Ipca riferito al triennio di vigenza dell’accordo. Gli industriali non hanno fatto cifre, ma hanno fatto capire che l’aumento chiesto, sulla base di questo indice, risulterebbe troppo oneroso.
Federmeccanica ritiene infatti che il sistema della contrattazione fissato dal Patto della fabbrica nel 2018 e dagli ultimi rinnovi contrattuali della categoria, abbia stabilito delle regole molto precise e che debbano essere rispettate. Secondo queste regole la contrattazione nazionale deve garantire la tenuta del potere di acquisto e nulla di più. Anzi, un poco meno, perché l’Ipca prevede il recupero dell’inflazione, sottratta quella generata dalla crescita internazionale dei prodotti energetici. Questo il contratto nazionale. La crescita del salario in termini reali viene invece, sempre in base alle regole citate, assicurata dalla contrattazione aziendale, per distribuire il salario dove si verifica un aumento della produttività. Stabilire per tutte le imprese un aumento salariale superiore, è la convinzione dei vertici di Federmeccanica, potrebbe mettere in difficoltà le aziende meno capaci, quelle border line, che non sarebbero in grado di sopportare un aumento eccessivo dei costi di produzione. Una vecchia regola, un convoglio deve viaggiare sempre alla velocità della nave più lenta, mai correre in avanti.
Normalmente a questa affermazione i sindacati rispondono ricordando che il sistema sarebbe anche valido, ma solo in teoria, perché la contrattazione aziendale non raggiunge che una percentuale abbastanza contenuta di lavoratori. Federmeccanica a sua volta replica che questo è però vero solo in parte per il comparto della metalmeccanica, dove la contrattazione aziendale, a loro avviso, sarebbe abbastanza diffusa, più che in altri settori. Resterebbero certamente fuori le piccolissime aziende, dove però proprio l’esiguo numero di lavoratori, 7- 8, tanto per fare un esempio, impedisce che si realizzi una vera dimensione collettiva. Queste imprese hanno caratteristiche differenti e comunque i lavoratori sono ugualmente difesi dall’elemento perequativo, un premio di circa 500 euro previsto dal contratto nazionale, riservato ai lavoratori di imprese dove non si pratica la contrattazione aziendale.
Questo il ragionamento di Federmeccanica, che però non viene accettato dai sindacati che insistono per avere quanto hanno chiesto, portando a loro volta due ragionamenti. Il primo guarda alla realtà dei salari italiani, che hanno perso potere reale di acquisto ininterrottamente da più di due decenni. A parte il fatto che, secondo le analisi dei sindacati, la produttività è cresciuta in questi ultimi anni nelle imprese metalmeccaniche italiane, per cui i motivi di una redistribuzione ci sarebbero, è indubbio che l’impoverimento ci sia stato, più consistente in tempi recenti a causa della fiammata inflazionistica.
Il secondo ragionamento portato avanti dalla parte sindacale guarda invece alla politica economica, alle difficoltà causate dalla carenza di domanda interna, che potrebbe essere compensata solo da una crescita sostanziosa dei salari. L’economia italiana è stata impoverita dalla stretta monetaria decisa dalla Bce, forse è arrivata l’ora di ampliare la domanda interna con una crescita salariale che, lo ha affermato anche il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, non c’è rischio accenda una rincorsa tra prezzi e salari. Ancora, i sindacati guardano al fatto che tutti i rinnovi contrattuali in questi mesi hanno previsto aumenti molto sostanziosi, a partire da quello dei dipendenti delle banche che hanno avuto aumenti medi mensili di 435 euro.
Due filosofie contrapposte che dovranno però avvicinarsi fino all’accordo finale, che non manca mai. Non sarà facile, proprio perché le due parti portano avanti ragionamenti abbastanza dissimili tra loro, ma l’esito è scontato. C’è da sperare che non ci si arrivi con troppe ferite.
Massimo Mascini