di Carlo Podda – segretario generale della Funzione Pubblica Cgil
La discussione avviata sul Diario del lavoro a proposito del sindacato di domani mi stimola, prima di ogni altra considerazione, a sottolineare che la gravità della crisi in corso, i suoi ancora imperscrutabili esiti, reclamerebbero una risposta profondamente innovativa e coraggiosa per l’ oggi; e che non può certo attendere un domani migliore nel quale, sottratti dalle urgenze delle risposte quotidiane, si abbia disponibile un tempo più comodo per approfondire il dibattito e successivamente attuare le decisioni assunte. Ci verremmo a trovare nella classica, ma sempre attuale situazione in cui, mentre i dottori discutono sulla diagnosi e sulle cure migliori il malato decede. Aggiungo che, nel nostro specifico caso, come cercherò di dimostrare più avanti, rischiano il decesso, oltre al paziente, anche i dottori.
Con il congresso confederale della CISL, che si svolgerà nelle prossime settimane, si apre un anno nel corso del quale i tre sindacati confederali terranno le proprie assise congressuali. Sembrerebbe quindi non esservi migliore occasione di questa per analizzare con nettezza la situazione ed avanzare proposte di soluzione ai problemi che attraversano la società italiana.
In primo luogo, dal mio punto di vista, sarebbe necessario abbandonare quell’approccio un po’ consolatorio dal quale partono quasi tutti i documenti confederali congressuali: secondo i quali il sindacato italiano è un organizzazione forte e robusta il cui successo e radicamento è incontrovertibilmente dimostrato dal numero di adesioni e di voti di cui ciascuna centrale confederale gode nel nostro paese sia negli attivi che tra i pensionati. Due milioni e mezzo di persone che vivono in uno stato di totale indigenza, sette milioni e mezzo di individui che sopravvivono al di sotto della soglia di povertà, più di dieci punti di ricchezza nazionale che negli ultimi quindici anni si sono trasferiti dal lavoro alle imprese ed alla rendita finanziaria, oltre quattro milioni di precari, una sostanziale immobilità sociale sono numeri e dinamiche che interrogano anche il sindacato, l’efficacia della sua azione, i risultati che oggettivamente si sono determinati.
Certo, si può sempre dire che chissà cosa sarebbe successo senza la nostra azione, e figuratevi se anche per dare un senso – prima di tutto a me stesso -di ciò che quotidianamente facciamo e faccio, non pensi anch’io che in questa affermazione vi sia del vero. Ma è altrettanto vero che il peggioramento oggettivo delle condizioni di coloro che rappresentiamo, e di quelli che non riusciamo nemmeno a rappresentare, richiede una analisi forse più impietosa e radicali innovazioni. Il lavoro ha perso valore e dignità sociale, ma ha perso valore anche dal punto di vista meramente economico.
La globalizzazione finanziaria, la frammentazione del lavoro e della sua rappresentanza, la sostituzione progressiva dei sistemi di welfare universali con prospettive di acquisizione di benessere individuale tramite l’indebitamento, il trasferimento del debito dai bilanci pubblici a quelli delle famiglie, hanno determinato un mondo di bassi salari e redditi insufficienti. Alcuni, ed io tra questi, ritengono questo fenomeno una delle cause principali di questa crisi che alcuni commentatori hanno voluto chiamare una tempesta perfetta. Perché dopo quindici anni di crescita pressoché ininterrotta dei salari, dalla fine degli anni ’80 ad oggi si sia verificato questo deprezzamento del lavoro, è il primo interrogativo al quale bisogna cercare di dare una risposta.
Dal mio punto di vista, se posso dirlo con una certa franchezza, non solo il lavoro è stato mercificato, ma la merce-lavoro ha perso valore economico. Penso che questo fenomeno sia determinato dall’affermazione progressiva, fino alla sua consolidata esistenza, della creazione di un duplice mondo/mercato del lavoro. Esistono, infatti, nel nostro paese circa 10 milioni di lavoratrici e lavoratori che hanno un sistema di tutele e protezioni, indebolite, non certo tutte eguali, ma che sono da noi rappresentate con una sufficiente efficacia. Accanto ad esse convivono ormai da tempo circa altrettante persone che non hanno sostanzialmente alcuna tutela e, da parte nostra, debole od inesistente rappresentanza: sono 10 milioni di persone sostanzialmente invisibili, sono i precari, i clandestini e il lavoro sommerso.
Questo, che una volta in una società più semplificata nella sua composizione e stratificazione si sarebbe chiamato esercito di riserva, oltre a costituire un problema in sé di dimensioni rilevantissime dal punto di vista dell’ingiustizia sociale che determina, di fatto costituisce una vera e propria zavorra per il miglioramento delle condizioni di quelli garantiti. Per parlare di cose che conosco bene e di mie responsabilità: quale efficace azione di tutela e crescita dei salari, ad esempio di un infermiere del S.S.N., si possa svolgere quando questo può facilmente essere sostituito da un infermiere che lavora in una cooperativa alla quale viene affidato una parte del lavoro di assistenza e cura sanitaria che costa il 40% in meno ed ha un sistema di diritti e tutele meno forte e che costituisce un ulteriore diminuzione del costo del lavoro? Senza contare la difficoltà per il sindacato di dare all’infermiere di quella cooperativa salari e tutele migliori. In estrema sintesi, noi facciamo fatica a rappresentare e difendere i garantiti perché non difendiamo e non rappresentiamo i non garantiti. Qualche anno fa P.Glotz ci parlò della società dei due terzi come di un sistema nel quale due terzi godevano di garanzie , tutele e prospettive di miglioramento sociale ed un terzo ne era escluso. Sembra a me che da questa suddivisione tra due terzi ed un terzo si sia drammaticamente arrivati ad una suddivisione a metà, e che questa deriva non abbia nemmeno finito di produrre i suoi effetti.
Dunque il sindacato di oggi e di domani ha in questa situazione il germe della propria progressiva ininfluenza. Intendiamoci: non voglio apodiitticamente predire la fine del sindacato. Le grandi organizzazioni strutturate hanno una sorta di inerzia che le porta a sopravvivere anche oltre l’esaurimento della loro originaria funzione. Si pensi per un attimo al sindacato argentino di ispirazione peronista. Esso è ancora oggi una delle più grandi organizzazioni sociali di quel paese ma è sostanzialmente ininfluente rispetto alle decisioni fondamentali di carattere economico-politico che in quel paese vengono prese. Se il sindacato italiano non si porrà il tema e l’obbiettivo della riunificazione del lavoro e della sua rappresentanza è, dal mio punto di vista, condannato alla ininfluenza. Può darsi che qualcuno degli attori sociali principali sia convinto che questa situazione politico-sociale sia sostanzialmente immodificabile, e che quindi si debba operare una sorta di riduzione del danno, rafforzando i compiti di tutela individuale e le funzioni parastatali in sostituzione di un compito di rappresentanza generale e di trasformazione della società italiana che non si ritiene di poter più svolgere. Ma questa non è la mia opinione, e mi batterò perché nel congresso della CGIL prevalga un altro punto di vista.
Se il tema è riunificare il lavoro bisogna con coraggio, approfittando anche dell’unica cosa buona che porta con sé la crisi e cioè l’oggettivo superamento di certezze che sembravano incrollabili, affrontare questioni e, per così dire, territori finora inesplorati o paradossalmente lasciati alla Destra politica e sociale. Provo a dire in estrema sintesi, senza un reale ordine di priorità e del tutto arbitrariamente un elenco di titoli che andrebbero declinati: un nuovo intervento pubblico in economia nel quale si affermi non l’invadenza del Governo di turno in questo o in quel pacchetto azionario, o C.d.A. ma il predominio di un indirizzo politico, in grado di rappresentare l’interesse generale, sulla economia che per troppo tempo è stata, e, passata la crisi, molti ancora ritengono debba ancora essere lasciata libera di assumere ogni decisione; sistemi di welfare universali ed inclusivi sostenuti da condizioni di efficacia ed efficienza, ma anche da un sistema fiscale che trovi le risorse necessarie nelle ricchezze sottratte e totalmente nascoste al fisco; salari minimi di categoria negoziati ed estesi erga omnes che tutelino i cosiddetti workinging-poor (si veda il recentissimo accordo in Germania sulle imprese si pulizia); un reddito sociale minimo di inserimento; una nuova forma giuridica di rapporto di lavoro che sostituisca tutte le tipologie di rapporti di lavoro oggi esistenti con un unico sistema di progressiva, ma certa acquisizione di uguali diritti e tutele, e che porti di nuovo il rapporto di lavoro a tempo indeterminato ad essere la modalità “normale” del rapporto di lavoro dipendente.
Infine: tra pochi giorni ricorre il tristissimo anniversario della uccisione da parte delle Brigate Rosse del Prof. Massimo D’Antona, che un così grande contributo ha dato alla legislazione sociale del nostro paese sul tema della rappresentanza e della democrazia sindacale. Per amara ironia della sorte, l’attuale Governo ha scelto un curioso modo si onorare questa ricorrenza. Nei decreti delegati che il Ministro Brunetta sta predisponendo in attuazione della Legge Delega sulla riforma del rapporto del lavoro pubblico è stato introdotto il rinvio sine die delle elezioni delle R.S.U. nel settore pubblico. Una sospensione della democrazia per quasi tre milioni di lavoratori un vero e proprio golpe nella “Repubblica del Pubblico Impiego”. E’ esattamente il contrario di ciò di cui abbiamo bisogno se vogliamo, oltre che riunificare, rappresentare tutto il mondo del lavoro. Bisogna dare a ciascun lavoratore il primo dei diritti democratici: il diritto di votare sugli accordi che li riguardano e sui propri rappresentanti.
E quest’ultima questione evidenzia un ultimo grumo di problemi, dal tentare di risolvere il quale il sindacato tutto non si può astenere in nome di una malintesa autonomia. Un sindacato a vocazione confederale non esiste se, nella gelosa salvaguardia delle reciproche autonomie, non trova una sponda nella sfera della rappresentanza politica che si dia carico di rappresentare ciò che noi cerchiamo di fare nella sfera della rappresentanza sociale. Ciò che in definitiva intendo dire è che o il lavoro, che pure costituisce come attivi e pensionati due terzi del corpo elettorale del nostro paese, torna ad essere centrale per la politica oppure il sindacato da solo non ce la farà. Dunque rivendicare una politica che, soprattutto a sinistra, superi ogni presunta equidistanza e torni con chiarezza ad occuparsi del lavoro, dei pensionati e di come diminuire le ingiustizie sociali, è un tema che riguarda anche il sindacato e per quel che mi riguarda la CGIL.