Di Leonello Tronti
Il 4 giugno 2013si sono riuniti a Roma, alla Facoltà di Economia della Sapienza, alcuni economisti che negli anni recenti hanno studiato il “male oscuro” del declino della crescita della produttività in rapporto con la contrattazione collettiva. Obiettivo dell’incontro, organizzato dalla Facoltà e da Economia & lavoro,la rivista della Fondazione Giacomo Brodolini, era confrontare risultati analitici e indicazioni di policy per verificare la possibilità di formulare una proposta di uscita dal tunnel della crisi della produttività, da far giungere ai partner sociali e al governo.
Economia & lavoro ha chiesto ai partecipanti di mettere per iscritto i principali risultati e le proposte emerse, e il numero 3/2013 della rivista, da poco uscito, riporta in forma di dialogo i contributi di Antonioli, Acocella, Fadda, Ciccarone e Messori, Pini, Simonazzi, Palumbo, Piacentini e di chi scrive. Il dialogo affronta senza dubbio un tema molto delicato in un momento di crisi e di sottoutilizzazione strutturale del potenziale occupazionale (Ciccarone e Messori, Piacentini). L’economia italiana, forse non diversamente ma in modo assai più grave della maggior parte delle economie europee, è da più di 15 anni attanagliata da un’evidente crisi di dinamica. Come nota Simonazzi, questa evidenza aggregata nasconde realtà ben diverse: molte medie e anche piccole imprese vanno bene, e i prodotti italiani godono di una fama di qualità che può sostenere la domanda internazionale per molti anni ancora. Ma i risultati positivi di una parte pur rilevante della manifattura non sono in grado di portare il dato aggregato in territorio positivo.
Tutti i partecipanti al dialogo (con particolare vigore Simonazzi, Palumbo e Piacentini) fanno riferimento ad un deficit di domanda: in una situazione in cui retribuzioni e investimenti sono bloccati da tempo e la spesa pubblica è ingessata dal debito e dal fisco, l’unica leva che ancora sospinge l’economia dal lato della domanda sono le esportazioni. Ma se la domanda internazionale ristagna, l’economia italiana non può che contrarsi – in misura maggiore delle altre economie europee. Peraltro, un deficit di domanda impone un più stringente trade off tra produttività e occupazione. Poiché per definizione l’occupazione non può crescere se non quando l’espansione della domanda supera l’aumento della produttività, se l’economia cresce poco e, al tempo stesso, rende più conveniente l’occupazione, la produttività non potrà non risentirne, e il modello di sviluppo si specializzerà in produzioni più labour intensive dei concorrenti, nell’industria e ancor più nei servizi. È esattamente ciò che è accaduto all’economia italiana. Attraverso ripetute e insistite ‘riforme strutturali’ del mercato del lavoro il legislatore italiano (anche sotto la spinta europea) ha perseguito con indubbio accanimento la massimizzazione del contenuto occupazionale dello sfavorevole trade off nazionale, a scapito della produttività. Si tratta di una scelta forse obbligata, ma indubbiamente miope perché la crescita, così come la sua sostenibilità nel tempo e quella della stessa maggiore occupazione, dipendono in misura dirimente dalla dinamica della produttività. La depressione della produttività porta alla depressione dell’economia.
Il ruolo della contrattazione
Che ruolo ha avuto la contrattazione in questa strategia sbagliata? La critica è anzitutto di tipo teorico: il modello negoziale a due livelli istituito nel 1993 stabilisce un legame perverso tra salari e produttività. I contratti nazionali di categoria non remunerano gli aumenti di produttività ma si limitano a prevenire la perdita di potere d’acquisto del salario fondamentale. Gli incrementi di produttività vengono invece remunerati quando derivano da specifici accordi siglati in sede decentrata, aziendale o (assai più di rado) territoriale, e solo se si registrano i risultati attesi. Ora, non è difficile capire che questi vincoli creano di fatto una ‘clausola di salvaguardia dei profitti’ che nel tempo non può che dimostrarsi insostenibile tanto quanto lo era, per i salari e vent’anni prima, la scala mobile con il punto unico di contingenza. Si è passati da un eccesso all’altro. Il modello negoziale italiano pone il costo del mancato aumento di produttività, in termini di corrispondente stagnazione del salario reale, in capo ai lavoratori e non alle imprese che, in assenza di pressione salariale, possono preservare i margini di profitto senza dover ricorrere a impegnativi recuperi di produttività. E gli imprenditori non affrontano costose riorganizzazioni alla leggera, non sfidano il futuro con massicci investimenti a meno che non abbiano forti motivi per farlo, tra i quali quello salariale (ivi incluso il ruolo del salario come elemento centrale della domanda di consumi) è uno dei più rilevanti.
La mancata diffusione della contrattazione di secondo livello – che ancora esclude forse il 70 per cento dei dipendenti delle imprese – ha causato per la larga maggioranza delle aziende il mancato rispetto della cosiddetta “regola d’oro dei salari” (Pini), che richiede che i salari reali crescano nella stessa misura della produttività del lavoro. La regola è “d’oro” perché soltanto nella sua vigenza può adempiersi la cosiddetta“regola di Bowley”, che comporta la costanza delle quote distributive del lavoro e del capitale nel reddito. Si noti che, oltre ad essere uno dei pilastri della ‘crescita bilanciata’ à la Kaldor, la regola di Bowley preserva l’incentivo chiave alla cooperazione tra i partner sociali finalizzata al miglioramento della produttività e alla crescita, e consente il massimo aumento dei consumi raggiungibile senza esercitare pressioni inflazionistiche sul saggio di profitto.
Nel modello contrattuale italiano, il combinato disposto della rigidità verso il basso in termini reali del salario “fondamentale” definito dai contratti nazionali (primo livello) e della mancata diffusione della contrattazione integrativa (secondo livello) ha stabilito un rapporto inverso e anticiclico tra crescita della produttività e quota del lavoro nel reddito. Il meccanismo è questo: se la produttività cresce (come dovrebbe accadere sempre), la scarsa diffusione della contrattazione integrativa fa sì che i guadagni di produttività vadano ad aumentare la quota del capitale nel reddito. Se, viceversa la produttività si riduce (come non dovrebbe accadere mai), la rigidità verso il basso del salario reale fondamentale torna a far crescere la quota del lavoro. Dagli anni ‘80 al 2008, come ricorda l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la quota del lavoro nel reddito è caduta in Italia di 10 punti. Con la crisi, in corrispondenza con la perdita di produttività, per gli effetti qui sinteticamente descritti ne ha riguadagnati quattro (Figura 1).
Figura 1. Il legame inverso tra produttività del lavoro e quota del lavoro nel reddito (numeri indice, I/2006=100)
Fonte: Elaborazione su dati Istat, Conti nazionali trimestrali
Non è difficile calcolare l’entità della redistribuzione di risorse dai salari ai profitti operata da questo perverso meccanismo istituzionale. In prima approssimazione, senza tener conto degli effetti della distribuzione del reddito sulla crescita, il computo può essere condotto in modo controfattuale, valutando la differenza tra il valore storico del monte profitti e quello che si sarebbe verificato se i salari reali fossero cresciuti nella stessa misura dei pur modesti aumenti della produttività lasciando inalterata la quota del lavoro nel reddito. I risultati dell’esercizio sono illustrati dalla Figura 2. Il contributo offerto dalla quota del lavoro ai profitti è stato davvero ingente: a prezzi 2005, oltre 50 miliardi di euro già due anni dopo la sigla del protocollo, fino a più di 75 miliardi l’anno nel triennio 2000-2002 e attorno ai 68 miliardi l’anno tra il 2003 e il 2007. Soltanto con la crisi (tra il 2009 e il 2012), in dipendenza della tenuta dei salari contrattuali reali a fronte della caduta della produttività del lavoro, il contributo si è ridotto a valori più ‘modesti’, tra i 30 e i 40 miliardi l’anno.
Ora, il valore cumulato di questi ‘trasferimenti impliciti’ operati automaticamente dal modello contrattuale italiano nel periodo dal 1993 al 2012 ammonta a ben 1.069 miliardi di euro. Si tratta di una cifra indubbiamente ragguardevole che, nell’opinione di chi scrive, è sufficiente a spiegare non solo il freno dei consumi (Simonazzi, Palumbo, Piacentini) e l’aumento dell’indebitamento delle famiglie, ma anche (e forse soprattutto) i ritardi di innovazione (Antonioli, Ciccarone e Messori), i mancati investimenti (Fadda), la sopravvivenza di imprese marginali i cui prodotti o servizi continuano a gravare sui bilanci delle famiglie e delle imprese competitive, l’incapacità del segmento sano dell’apparato produttivo di crescere sino a trainare fuori dal tunnel l’intero Paese (Simonazzi).
Figura 2. Contributo della quota del lavoro alla quota dei profitti, a prezzi costanti del 2005(differenza tra il valore storico della quota profitti e quello che sarebbe risultato dall’applicazione della quota del lavoro del 1992, in termini di valori annuali e di valori cumulati)
Fonte: Elaborazione su dati Istat, Conti nazionali
Il raffronto tra l’entità delle risorse trasferite e i risultati dell’economia italiana smentisce qualunque ipotesi di neutralità della distribuzione del reddito ai fini della crescita. Il meccanismo perverso del modello contrattuale, che ha garantito i profitti al di là dei meriti di mercato, oltre ad esercitare effetti anticiclici di breve periodo, nel lungo periodo ha minato, almeno per la cospicua parte del sistema produttivo esclusa dalla contrattazione decentrata e dalla concorrenza internazionale, l’incentivo ad impegnarsi e ad investire per migliorare la qualità dei processi produttivi e dei prodotti. Il disincentivo ha influito tanto sulle scelte imprenditoriali, comunque garantite sul lato dei profitti, quanto su quelle dei lavoratori, non remunerati in caso di performance produttive migliori.
Le proposte: tre passi verso l’uscita dal tunnel
Dal dialogo emergono alcune proposte di riforma della contrattazione che mirano a spezzare i meccanismi perversi e a rimettere l’economia suun sentiero di crescita.Chi scrive prova a sintetizzarle assumendo ogni responsabilità di errori, travisamenti e omissioni.
Da un lato (Acocella, Pini e anche – e anzi soprattutto – Riccardo Leoni che tuttavia, pur partecipando al seminario, non ha ritenuto di lasciarne memoria scritta) si colloca la proposta di attribuire ai partner sociali il compito di pattuire ben definite linee guida di riorganizzazione di imprese e luoghi di lavoro, al fine di assicurare il conseguimento di incrementi di produttività. Le linee guida devono mirare all’instaurazione di rapporti di lavoro ‘ad alta performance’, basati sull’accumulazione e la diffusione di saperi produttivi innovativi attraverso l’adozione di modelli organizzativi flessibili basati sulle nuove tecnologie e sulla ‘partecipazione cognitiva’ dei lavoratori al continuo miglioramento di processi e prodotti. Dall’altro(Ciccarone e Messori, Fadda, Pini) si pone la proposta di affidare ai partner sociali il compito di proporsi, attraverso la contrattazione, valori obiettivo di produttività programmata ai quali commisurare la dinamica del salario reale. In questo modo, se vogliono evitare lo shock di aumenti salariali non fondati su effettivi guadagni di produttività, le imprese sono chiamate a riorganizzarsi per conseguire i valori contrattati. Questi elementi di riforma della contrattazione, destinati ad agire tanto dal lato dell’offerta quanto da quello della domanda, non solo non sono in contrasto ma possono rafforzarsi e completarsi reciprocamente. Per essere davvero efficaci devono però, a giudizio di chi scrive e di altri (Acocella, Fadda, Ciccarone e Messori, Pini, Palumbo), collocarsi nell’ambito di un più ampio quadro programmatico, che spetta ai livelli di governo nazionale e comunitario di creare. Se è infatti indubbio che, per riavviare la produttività, le imprese italiane vanno riorganizzate e i luoghi di lavoro ammodernati e resi internamente flessibili e “intelligenti”, è però innegabile che, in assenza di un indirizzo nazionale ed europeo di politica economica e di politica industriale – o addirittura di politica salariale (Pini, Palumbo) – gli sforzi dei partner sociali rischiano di dare frutti modesti e disorganici; e addirittura controproducenti in termini occupazionali sino a quando la crescita della domanda sia inferiore a quella della produttività.
Secondo chi scrive, spetta in particolare al governo nazionale fissare almeno i valori obiettivo(non le semplici previsioni) della crescita e dell’occupazione; e quindi, anche solo implicitamente, il target di produttività dell’intera economia. Si tratta di una responsabilità che il governo deve assumere di fronte al Paese, ed è compito dei partner sociali incalzarlo perché lo faccia, collocando questa misura nel quadro di un disegno di politica economica e industriale che indirizzi e agevoli la cooperazione sociale. Posizioni molto vicine a queste vengono espresse da Fadda, Ciccarone e Messori, che pongono in capo alla politica nazionale non solo il compito di fissare obiettivi di produttività coerenti con una strategia di recupero dei ritardi, ma anche di accompagnare l’impegno dei partner sociali con idonee misure di sostegno alla crescita.
Peraltro, se anche il compito di individuare il valore obiettivo della produttività programmata toccasse in esclusiva al governo, resterebbe ai partner sociali quello (comunque gravoso) di articolarlo tra i comparti e i livelli di contrattazione, e di stabilire su quali voci retributive collocarlo. Su questo aspetto il dialogo evidenzia ipotesi parzialmente divergenti tra Fadda, Ciccarone e Messori e Pini. Per Fadda, il governo dovrebbe fissare non solo gli obiettivi aggregati, ma anche i range di variazione tra i diversi contratti (di comparto, territoriali, aziendali), per Ciccarone e Messori delle soglie minime sul tempo in cui raggiungere i target di convergenza (per ipotesi, cinque anni) e sui valori obiettivo di produttività da negoziare nei contratti. Stante la forte e crescente eterogeneità dei margini di produttività recuperabili dalle imprese, l’interazione tra contrattazione nazionale e contrattazione decentrata dovrebbe pervenire a stabilire classi omogenee di impresa alle quali applicare le soglie minime di produttività programmata. Per Pini invece, data la limitata diffusione della contrattazione decentrata, i valori obiettivo di crescita della produttività dovrebbero essere fissati in sede di contratto nazionale, e dovrebbero poi essere conseguiti negli specifici ambiti contrattuali avendo cura di dare particolare impulso alla contrattazione decentrata di livello territoriale.
Va peraltro sottolineato che i partner sociali, attraverso la fissazione contrattata della crescita della massa salariale e del rapporto tra crescita della produttività e crescita del salario reale, possono a loro volta individuare autonomamente ed esplicitamente anche il valore obiettivo della distribuzione funzionale del reddito tra salari e profitti, in termini di andamento della quota del lavoro nel reddito e, in relazione con questo (almeno in prima approssimazione), il livello dei consumi desiderato. Si tratta di qualcosa che, in Italia, sinora non è mai stato fatto, con conseguenze che, sulla base di quanto è stato qui argomentato, è difficile non definire gravissime.
Le proposte di ‘uscita dal tunnel’ provenienti dal Dialogo si possono quindi riassumere(in estrema sintesi) in tre punti fondamentali:
a) contrattazione di linee guida di riorganizzazione dei luoghi di lavoro (nuove tecnologie, organizzazione flessibile, rapporti di lavoro ad alta performance) per agevolare, dal lato dell’offerta, l’uscita dalla crisi delle imprese in condizioni più difficili, possibilmente nel quadro di una strategia di politica industriale e di politica economica promossa dal Governo e dall’Unione Europea che insista sulle indispensabili riforme strutturali ‘sul lato del capitale e dello Stato’ e non più ‘sul lato del lavoro’;
b) contrattazione di valori obiettivo di aumento della produttività (produttività programmata), finalizzati a ridurre il divario di produttività tra l’Italia e i maggiori paesi partner nell’euro, e crescita salariale reale in linea con essi, come forte stimolo – dal lato della domanda – alla riorganizzazione delle imprese in accordo con le linee guida di cui al punto a);
c) contrattazione esplicita di un valore obiettivo della quota del lavoro nel reddito(quota del lavoro programmata), in relazione alla politica salariale di cui al punto b), anche attraverso l’estensione della contrattazione decentrata,da ottenersi con lo sviluppo della contrattazione territoriale (v. la relazione della Commissione Giugni di revisione del Protocollo del ’93 e il Piano del Lavoro 2013 della Cgil), in modo da contemperare la necessaria ripresa del livello dei consumi con quella degli investimenti.
Non c’è dubbio che, sotto i colpi della crisi, i partner sociali stiano muovendo assieme, e in modo finalmente unitario, passi importanti nella direzione di un rinnovamento del sistema di relazioni industriali e, sperabilmente, anche dell’apparato produttivo e del modello di sviluppo. Spetta dunque alle forze di governo abbandonare gli strascichi di un ventennio perdente per riprendere il ruolo di guida del progresso del Paese, senza il quale l’uscita dal tunnel rimarrà impossibile.