“Si può dire che la storia di Marchionne alla Fiat inizia con Gm e con Gm si chiude, dal put del 2004 alla mancata fusione del 2015. Con in mezzo il “miracolo” finanziario del convertendo del 2005, la grande crisi globale, l’alleanza con Chrysler, la marginalizzazione degli stabilimenti italiani e lo scontro con la Fiom. Sempre con grande spregiudicatezza, libero da principi cui attenersi, adeguando le proprie azioni all’opportunità del momento”. Così Gianni Rinaldini sintetizza l’epopea di Sergio Marchionne, nel corso di una ampia intervista firmata da Gabriele Polo e pubblicata sul sito della Fiom. Segretario generale dei metalmeccanici Cgil quando Marchionne arrivò al Lingotto nel 2003, Rinaldini ne ha seguito l’attività, dall’altra parte del tavolo di confronto, fino al 2010. Nel dialogo con Polo fornisce il proprio punto di vista su chi è stato sua controparte: “Assunto per gestire l’uscita della Fiat dall’auto, evitare il fallimento del gruppo e arrivare al pareggio di bilancio, Marchionne ha svolto fino in fondo il compito che gli era stato assegnato. Salvando Exor, i suoi azionisti. E la Chrysler, grazie a Obama. Per poterlo fare ha sacrificato la Fiat, penalizzato gli stabilimenti italiani e soprattutto i suoi operai”.
Sul piano personale, ammette però Rinaldini, “insieme alla distanza c’è sempre stata reciproca stima. Non era il prototipo dell’uomo Fiat del ‘900: detestava servilismo, clientele e formalità, perseguiva con determinazione assoluta i suoi obiettivi, adeguando le tattiche con rapidità e spregiudicatezza. Era uno scaltro uomo di finanza, lavorava tantissimo e in fabbrica ci andava spesso: a suo modo era anche simpatico. Con la politica aveva un rapporto di pura convenienza e – mia impressione – non di grande stima”
Come ‘’controparte’’ Marchionne “stabiliva rapporti diretti, senza alcuna formalità, andava al sodo – anche brutalmente – con un’idea molto precisa ed esplicita di “comando aziendale”; con i suoi collaboratori come con le sue controparti”. La Fiat del resto era già da qualche anno “tecnicamente fallita”, “a un certo punto si era persino valutata l’ipotesi di nazionalizzare il settore dell’auto che era quello maggiormente indebitato. Non se ne fece nulla, ma la situazione era talmente disastrosa che Paolo Fresco – che ne fu presidente dal 1998 al 2003 – ricorda come Gianni Agnelli gli chiese di vendere, dopo la sua scomparsa, Fiat-auto a General Motors”. Invece arriva Marchionne e fa il contrario, gioca una sorta di poker e costringe Gm a ritirarsi dal put, pagando anche una cospicua penale: “Per Marchionne è il primo successo, un’abile manovra finanziaria che rimette un po’ in sesto il gruppo, anche se va detto che venne facilitato dal tipo di contratto stilato nel 2000 da Fresco, evidentemente vantaggioso per la Fiat”.
Nello stesso modo scavalca l’ostacolo del ‘’convertendo’’, che rischia di consegnare la Fiat alle banche: “Marchionne ha sempre sostenuto che se la Fiat fosse passata sotto il controllo delle banche lui se ne sarebbe andato. Poi ha affermato di non aver saputo nulla dell’operazione che, attraverso Merril Lynch e la finanziaria Exor (quella che ha poi sostituito Ifil come cassaforte di casa Agnelli), ha rastrellato segretamente azioni Fiat per evitare che con il convertendo del debito in azioni le banche arrivassero a controllare il 30% del gruppo facendo scendere la famiglia sotto il 24%. Questo miracoloso – o truffaldino – salvataggio permise alla famiglia Agnelli di mantenere il controllo del gruppo e a Marchionne di rimanere al suo posto”.
Si avvia così “quella che sarà una vera e propria trasformazione aziendale”. In realtà, osserva Rinaldini, “sono tutte operazioni finanziarie, d’industriale c’è ben poco, come dimostra l’esito del piano “Fabbrica Italia”, un annuncio-spot senza seguito reale. Ed è lo stesso Marchionne ad ammetterlo quando – alla vigilia della grande crisi globale del 2008 – ci dice esplicitamente che “in momenti di crisi di mercato come questi è meglio non fare investimenti industriali, tanto meno varare nuovi modelli d’auto, rinviando tutto a quando si manifesteranno i primi segnali di ripresa”. Con la crisi arriva però anche la grande occasione, l’accordo con Chrysler: “Con Chrysler – ammette l’ex segretario Fiom- è stato abilissimo: i soldi ce li ha messi Obama, la fatica i lavoratori americani che hanno dovuto accettare condizioni salariali e normative durissime”.
Ma ci sono anche i fallimenti, a partire dal mancato accordo con Opel, saltato per l’opposizione dei sindacati tedeschi ma anche, dice Rinaldini, della stessa Merkel. Il piano di Marchionne “ consisteva nella creazione di un mega-gruppo euro-americano, dentro il quale la parte italiana sarebbe stata ancor più sacrificata di quanto poi lo è comunque stata. Infatti – come ci dissero i sindacalisti dell’Ig Metall – per il nostro paese prevedeva la chiusura non solo di Termini Imerese in Sicilia ma pure di Pomigliano, proprio lo stabilimento in cui ha poi dato via alla sua “rivoluzione” dei rapporti di lavoro e delle relazioni sindacali”.
Fallisce anche il tentativo, forse maldestro, di fusione con GM. Una partita che Marchionne gioca nel 2015, tentando prima di convincere la Ceo della casa americana, Mary Barra, con le buone, poi, vista la sua ferrea opposizione, con le cattive: “ Marchionne – rivela Rinaldini- organizza un’Opa ostile per scalare Gm cercando di coinvolgere tre fondi speculativi e altri soggetti, tra i quali l’Uaw, il sindacato dell’auto americano, che possiede l’8% di General Motors. Ma Gm viene a conoscenza dell’Opa ostile e rompe le relazioni con il Lingotto. Anche Elkan e la famiglia Agnelli – che volevano un’alleanza, non uno scontro – non apprezzano l’ennesimo azzardo di Marchionne e anche al Lingotto si vive una certa tensione. E così Sergio Marchionne è costretto a dedicarsi completamente al pareggio di bilancio: annuncia che se ne sarebbe andato da Fca nel 2019 e finisce di mette a posto i conti pochi mesi prima della sua morte”.
Oggi, con la scomparsa di Marchionne, osserva Rinaldini, “riemergono tutte le incertezze che il suo protagonismo finanziario ha nascosto. Nessuno può dire oggi quale sarà il futuro di Fca. Le voci insistenti sulla vendita di Magneti Marelli confermano il progressivo disinteresse di Exor per il settore industriale; Fca non è presente sui mercati emergenti di Cina e India; è in ritardo tecnologico sui modelli a propulsione ibrida o elettrica, che costituiscono il futuro dell’auto; è fortemente sbilanciata – come marchi e come vendite – sul mercato americano, mentre in Europa è molto indietro. In conclusione, direi che Marchionne, oltre al futuro degli eredi Agnelli ha garantito quello di Chrysler, non certo quello dei lavoratori e degli ex stabilimenti Fiat, per cui, ad oggi, investimenti e nuovi modelli restano una promessa; Ferrari a parte, cui avrebbe voluto dedicare tutte le sue future attenzioni, ma quella è un’azienda che vive di luce propria, è persino oltre il “polo del lusso” di cui Marchionne tanto parlava per l’Italia. Alla fine della storia va aggiunto che la sostanziale scomparsa dal nostro paese del suo più importante gruppo industriale è stata accompagnata, se non favorita, dalla politica: che non ha mosso un dito, al contrario di ciò che hanno fatto e continuano a fare i governi dei grandi paesi europei, dalla Francia alla Germania”.