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Home - Rubriche - Giochi di potere - Le malattie del Pd

Le malattie del Pd

di Riccardo Barenghi
7 Gennaio 2022
in Giochi di potere
Con 5,3 ml di euro il Pd e’ il partito più finanziato dal 2 per mille

Ma è vero che il renzismo è stato una malattia della sinistra? Ed è vero che quella stessa sinistra, ossia il Pd, è guarita da sola da quel virus?  Quando parla – e ormai parla poco – Massimo D’Alema provoca sempre un diluvio di polemiche, che anche stavolta non sono mancate. Al di là delle polemiche, vale però la pena di approfondire il tema, soprattutto perché dall’analisi del passato spesso si riesce a delineare il futuro.

E allora diciamo subito che se lo tsunami renziano è stato una malattia, non si è trattato di un virus venuto dal nulla che improvvisamente è esploso nelle stanze del Partito democratico, come il Covid. Ma al contrario ha avuto bisogno di una lunga gestazione, molto più lunga di quella delle elefantesse che devono aspettare quasi due anni per poter partorire il loro cucciolo. D’altra parte, non è un caso se Giampaolo Pansa definì il padre del Pd, ovvero il Pci, “l’elefante rosso”, cioè un pachiderma tanto grosso e potente quanto lento. Lento nel prendere decisioni, nel cogliere l’attimo fuggente, nell’essere insomma all’altezza delle sfide della politica in tempo reale. E anche in questo caso, si può tranquillamente sostenere che Matteo Renzi non è spuntato come un fungo inatteso o un acquazzone estivo, ma che si è trattato di un fenomeno ampiamente prevedibile, e anzi preparato da tutti coloro che prima di lui avevano guidato il Partito democratico. Commettendo errori su errori, dividendosi su qualsiasi questione, anche le più irrilevanti, perdendo tempo e privilegiando la piccola lotta di potere personale rispetto alla partita principale. Che, secondo loro, da Veltroni a Bersani, da Rutelli a Marini fino a Romano Prodi sarebbe dovuta essere quella di creare e consolidare il Partito unico della sinistra italiana. Forse, chissà, era un progetto sbagliato, come disse lo stesso D’Alema “un amalgama non riuscito”, ma visto che quel gruppo dirigente ci aveva creduto, o almeno aveva fatto finta di crederci (sempre D’Alema), tanto valeva provarci fino in fondo.

Invece no, è prevalso per l’ennesima volta l’antico vizio della sinistra: litigo, mi divido, mi spacco, ergo sum. Ed è proprio grazie a questo clima che Renzi ha potuto scalare quel Partito, trovando davanti a sé un deserto di idee e di leader, esausti e incapaci di opporre una qualsiasi resistenza. In poche parole, è colpa della vecchia classe dirigente del Pd se Renzi ha potuto diventare leader di quel Partito, modellandolo a sua immagine e somiglianza per diversi anni.  Insomma, se lui è stato il sintomo della malattia, la causa del contagio arrivava da lontano.  Un contagio composto non solo dalle ambizioni dei vari protagonisti, non solo dei personalismi, ma anche dalle politiche che loro stessi avevano via via messo in campo. In estrema sintesi, la deriva liberista in economia e quella leaderistica in politica, non sono nate con Renzi: lui le ha trovate lì belle e pronte, avendo gioco facile nel rilanciarle, amplificarle e farle diventare il suo segno distintivo. Suo e di tutto il Pd.

Pd che adesso, uscito di scena Renzi, sarebbe guarito. Chissà? La questione non sembra affatto risolta così facilmente. Intanto perché l’ex segretario è uscito fino a un certo punto dal suo vecchio partito, è vero che adesso è il leader di un’altra forza politica, Italia viva, ma è altrettanto vero che da fuori riesce a condizionare la politica del Pd. Basti pensare a come è riuscito a far cadere il governo giallorosso, costringendo il suo ex partito a passare dal “o Conte o morte” al “Draghi uber alles”, un vero e proprio salto mortale. Inoltre lì dentro esiste una corrente organizzata che idealmente e praticamente fa riferimento a lui, si chiama Base riformista e provoca non pochi fastidi all’attuale leader Enrico Letta. Per non parlare di quanto pesino in Parlamento i renziani, che potrebbero condizionare il prossimo voto per il Capo dello Stato alleandosi con i centristi di Toti e Brugnaro e non con i loro ex compagni del Pd. Insomma, il virus si è forse indebolito ma non è scomparso, ed è ancora in grado di contagiare la sinistra italiana, che un’idea chiara del proprio futuro non riesce a esprimerla, ammesso che ce l’abbia.

E qui torniamo a D’Alema, che ha chiaramente annunciato un prossimo rientro nel Pd della creatura politica di cui fa parte insieme a Bersani e Speranza, cioè Leu. Non è mai troppo tardi, viene da dire. E si può anche aggiungere che la loro scissione è stato un madornale errore, considerati anche i risultati finora ottenuti da quel piccolo partito che nei sondaggi viaggia intorno al 2 per cento. Se fossero rimasti nel Partito democratico, se si fossero organizzati come una minoranza agguerrita, avrebbero potuto condizionare non poco la politica di Renzi. Aspettando il momento giusto, ovvero l’uscita di scena del loro rivale, che puntualmente è avvenuta. Invece hanno voluto seguire il vecchio vizio della sinistra – la scissione – che li ha portati a creare l’ennesimo piccolo partitino, ottenendo qualche posto al governo, per esempio Speranza ministro della Salute, ma senza alcun peso reale nel Paese.

Se adesso rientrassero, potrebbero forse dare una mano alla ricostruzione di un Partito nato male e sviluppatosi peggio, vista la loro lunga esperienza politica. A meno che non vada a finire in un semplice rassemblement di ceto politico, che francamente non sarebbe in grado di affascinare gli italiani e quindi di sconfiggere la destra alle prossime elezioni politiche.

Riccardo Barenghi

Riccardo Barenghi

Riccardo Barenghi

Giornalista

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