Adesso l’inflazione fa un po’ meno paura. Per mesi, il vertice della Bce ha evocato il rischio che il boom dell’inflazione innestasse una spirale prezzi-salari, capace di alimentare all’infinito, come negli anni ‘70, la corsa dei prezzi. In realtà, dovevano ammettere anche i banchieri centrali più allarmati dall’inflazione, segnali non se ne vedevano. Ma, se l’idea era quella di prevenirla, stirando i tassi di interesse di più e più in fretta possibile, adesso possono mettersi il cuore in pace. La prova decisiva erano le rivendicazioni salariali del più importante sindacato europeo, l’Ig Metall, che rappresenta i metalmeccanici nel paese – la Germania – dove più forte è l’ossessione dell’inflazione. E il risultato è più che ragionevole. Contro una inflazione che corre all’11,6 per cento, l’aumento salariale concordato è del 5,2 per cento per il 2023, più un altro 3,3 per cento nel 2024. Di fatto, i metalmeccanici tedeschi hanno accettato una decurtazione del salario reale, accontentandosi di recuperare meno di metà dell’inflazione già acquisita.
Dietro questa moderazione, c’è la convinzione che, in realtà, il picco dell’inflazione sia vicino. La maggior parte degli analisti pensa che in America sia già stato raggiunto e che l’Europa ci arriverà entro Natale. Senza nuovi scossoni – dall’Ucraina e, in generale, dai prezzi dell’energia – i prezzi scenderanno velocemente e, fra un anno, l’inflazione europea viaggerà poco sopra il 3 per cento.
Questa brusca frenata si spiega con una recessione che, probabilmente, è già in corso e si estenderà fino alla prossima primavera. Anche se è una brusca gelata dopo un 2022 più che soddisfacente (il Pil italiano crescerà del 3,7 per cento quest’anno), la recessione attesa non dovrebbe essere severa. Anche in Italia, che è uno dei paesi più esposti sia per la richiesta di energia (siamo uno dei paesi più industriali, dunque più energivori) sia per il ruolo delle esportazioni, destinate a frenare in una economia globale per cui si prevede una espansione, per la prima volta in decenni, sotto il 2 per cento, di fatto una recessione. Ma la contrazione, prevedono gli economisti di Unicredit, dovrebbe fermarsi allo 0,1 per cento e, di fatto, l’economia dovrebbe ripartire (salvo nuove catastrofi geopolitiche) già nella seconda metà del 2023.
Ma è una ripartenza con il freno tirato. Sempre a Unicredit prevedono, per il 2024, una espansione che non arriverà all’1 per cento. Come mai un rimbalzo così moscio? Una buona parte della spiegazione chiama in causa la Bce che, dice la maggior parte degli analisti, dopo aver sbagliato l’anno scorso, nel non prevedere l’esplosione dell’inflazione, rischia di sbagliare ora, non valutandone la discesa.
Scottati dal flop di un anno fa, infatti, a Francoforte hanno deciso di reagire all’andamento corrente dei prezzi, stringendo la vite del costo del credito in parallelo con l’inflazione che raggiungeva le due cifre. Le previsioni del mercato sono per un nuovo aumento di 0,50 punti dei tassi a dicembre, un’altro ancora, della stessa entità a febbraio e, infine, un rincaro ancora di 0,25 punti a marzo, che porterebbe il tasso di riferimento della banca centrale al 2,75 per cento. A far di conto, una stretta di oltre il 3 per cento nel giro di soli 8 mesi.
Il punto è che la politica monetaria non funziona così. I banchieri centrali sanno, quando non sono obnubilati dal panico, che le misure di politica monetaria dispiegano i loro effetti sull’economia con un ritardo di 12-18 mesi, quanti ce ne vogliono perché si trasmettano alle banche, da queste alle imprese e dalle imprese al mercato. Ecco perché, normalmente, le manovre sui tassi si fanno sulla base delle previsioni a medio termine sull’economia, non sulla scorta dei dati dell’inflazione del mese prima. Quando, nel 2024, prevedono gli analisti, la Bce comincerà a limare i tassi, sarà troppo tardi per evitare una ripresa asfittica.
Maurizio Ricci