Nel dibattito – o, forse, sarebbe meglio dire “nella rissa da osteria” – intorno al problema immigrati, volano gli stracci, ma anche nei meglio intenzionati, ci sono delle esitazioni, una riluttanza diffusa a prendere atto di quanto accade. Il risultato sono alcuni equivoci di fondo che, non da oggi, impediscono di elaborare politiche adeguate, all’altezza di un fenomeno epocale. Per affrontarlo, bisogna fare, anzitutto, dunque, un esercizio di realtà. Fra gli altri, questi sono i passi indispensabili.
1- Non li fermeremo sul bagnasciuga. Il primo equivoco è definire le ondate di sbarchi “emergenza”. Non è un fatto episodico, né transitorio. Il solo boom demografico africano, accoppiato con la parallela implosione demografica europea comporta che, nei prossimi decenni, vi sarà una trasmigrazione massiccia e ininterrotta fra le due sponde del Mediterraneo. È un fenomeno epocale, proprio perché chiude un’epoca – quella della omogeneità nazionale – e ne apre un’altra, quella della multidiversità. Può piacere o meno. Ma viene definito epocale per il suo impatto quantitativo: in un modo o nell’altro, milioni di persone si stabiliranno in Europa. Non le fermeranno neanche le cannoniere. Il compito dei governi è quello di trovare il modo di gestire, filtrare, cadenzare, selezionare questo flusso inarrestabile: gli hotspot in Africa devono servire a questo, non dare l’illusione che si possa bloccare il flusso.
2 – L’emergenza è scavalcare Dublino. Il vero punto da risolvere al più presto è superare la legislazione sui rifugiati stabilita a Dublino e sbottigliare i passaggi fra i paesi. Italia e Grecia non possono più farsi carico, praticamente in esclusiva, dell’accoglienza. Il grosso degli immigrati, d’altra parte, non vuole fermarsi in Italia o in Grecia. L’accoglienza deve diventare responsabilità dei paesi di destinazione. Il problema dell’immigrazione deve essere condiviso.
3 – Ci servono. La gestione del problema diventa possibile solo se si parte dal principio che gli immigrati non sono una sciagura, ma una risorsa. Gli economisti sono concordi nel dire che non rubano posti di lavoro (le proteste, del resto, riguardano semmai l’utilizzo del welfare) e coprono occupazioni che gli italiani (o i tedeschi) non vogliono più fare. D’altra parte, se, fra trent’anni, l’Inps continuerà a pagare le pensioni, sarà grazie ai contributi che verseranno i lavoratori immigrati. Gli italiani non basterebbero.
4- Integriamoli. I tre punti precedenti hanno un senso preciso. La gestione di chi parte per arrivare in Europa, lo sbottigliamento delle destinazioni finali, il riconoscimento dell’utilità degli immigrati porta ad una sola conclusione: chi, poi, resta in Italia va integrato nella comunità nazionale. Non è possibile la politica delle braccia aperte per tutti, ma neanche quella delle braccia chiuse per tutti, salvo poi far finta che gli immigrati non ci siano, sperando di dimenticarli dentro qualche centro di raccolta. Riconoscere che ci sono significa immaginare un percorso di integrazione: scuola, lingua, formazione professionale, ma anche civile e culturale. La Costituzione deve valere per tutti, anche per gli immigrati.
Non basterà una generazione, probabilmente, per superare la parte più difficile di questa transizione. Ma non è neanche una salita proibitiva. L’ultima volta che sono partito per gli Stati Uniti, all’aeroporto a farmi il controllo di sicurezza per conto della compagnia americana, c’era un ragazzo inequivocabilmente di origine cinese. Mi è venuto spontaneo parlargli in inglese. Quello mi ha guardato e ha detto: “Aho, ma ‘ndo te credi de sta’?”. Del resto, ogni volta che sento Balotelli parlare in bresciano, mi sembra la migliore – e definitiva – risposta a Salvini.