di Nicola Alberta, segretario generale Fim Lombardia
La riforma del sistema della contrattazione collettiva
La recente riforma del sistema contrattuale sta suscitando, come era prevedibile, un vivace dibattito, e soprattutto sta producendo una serie di conseguenze nella sua concreta applicazione come dimostra l’avvio dei rinnovi contrattuali di categoria tra i quali spicca, anche per la frattura prodottasi all’interno del mondo sindacale italiano, quello dei metalmeccanici. Una frattura che risulterebbe poco comprensibile se non si tornasse alle ragioni che l’hanno prodotta.
La riforma nasce da una esigenza di adeguamento del sistema delle relazioni sindacali rispetto alle modificazioni veloci e profonde che il mondo produttivo e del lavoro ha conosciuto in questi anni, ragioni importanti dunque che avevano condotto Cgil-Cisl-Uil con la piattaforma del maggio 2008, dopo gli infruttuosi tentativi degli anni precendenti, a chiedere l’apertura di tavolo di trattativa con la Confindustria.
La trattativa si è sviluppata nel corso di diversi incontri tecnici e “politici” (18 per la precisione) tenuti dal mese di giugno 2008 fino al vertice del 17 novembre tra Bonanni, Epifani, Angeletti e Emma Marcegaglia, nel corso del quale si conveniva sulla prosecuzione e conclusione del negoziato (con il coinvolgimento di tutte le associazioni di impresa, la definizione delle linee guida generali, e le specifiche intese di settore/comparto), quale modalità per favorire la convergenza di tutte le Confederazioni sindacali. Una convergenza che doveva essere sancita intanto dal via libera alla sottoscrizione dell’accordo per il settore dell’artigianato, che la Cgil si era impegnata a dare nel Direttivo di metà dicembre 2008. Tutto ciò non è avvenuto per ragioni squisitamente (e legittimamente) interne alla Cgil stessa, ossia per l’opposizione di alcune categorie (Fiom e Funzione pubblica).
E’ a questo punto che Cisl e Uil hanno deciso di procedere alla stipula del solo “accordo quadro” del 22 gennaio, contenente le linee guida, prevedendo una successiva definizione entro tre mesi della parte riguardante democrazia e rappresentatività, contando sulla possibilità di una conclusione unitaria del negoziato. Tuttavia, verificata ulteriormente l’impossibilità di procedere in questa direzione, si è giunti alla stipula delle “specifiche intese” (quella con Confindustria del 15 aprile), rimandando quindi ai singoli rinnovi dei contratti nazionali la definizione delle piattaforme e degli accordi, auspicabilmente unitari, nell’ambito del quadro di nuove regole.
Alla luce di questo percorso, pertanto, non si può parlare di protocollo separato, bensì più propriamente di negoziato unitariamente avviato, e al quale la Cgil ad un certo punto è venuta meno. Cisl e Uil hanno quindi ritenuto di assumere la responsabilità della sua conclusione.
Le obiezioni di merito: IPCA e deroghe
Sul merito del protocollo sono state avanzate obiezioni critiche in particolare sull’indicatore IPCA da utilizzare nei contratti nazionali per il calcolo dell’inflazione e sulle cosiddette clausole di deroga. L’indicatore IPCA viene depurato dell’incidenza dei beni energetici importati. Gli esperti spiegano che la misura serve ad evitare gli shock delle oscillazioni di detti beni. Come l’accordo del ’93 che escludeva l’incidenza delle “ragioni di scambio”, ossia dei prezzi relativi di tutti i beni di importazione: energia e materie prime, ed esattamente come avveniva con la scala mobile, che nel “paniere” non considerava i medesimi beni. E’ un problema che abbiamo almeno dal ’75, eppure tutti gli accordi da allora ad oggi sono stati firmati da Cisl e Uil, e anche dalla Cgil. Perchè ora questa misura suscita tanto scandalo? E sopratutto perchè non analizzare la reale capacità dell’indicatore IPCA di misurare la febbre da inflazione? Ebbene dalle analisi dei dieci anni precedenti, e dalle proiezioni sui prossimi quattro anni, si evidenzia una corrispondenza molto stretta tra tale indicatore e l’indice Istat del costo della vita fin qui utilizzato. Ciò dovrebbe rassicurare sulla sensibilità del nuovo indicatore di fornire indicazioni utili alle parti per definire gli incrementi salariali dei contratti nazionali.
Quanto alla clausola che stabilisce le cosidette deroghe. Il protocollo prevede la possibilità per i Contratti nazionali di introdurre tali meccanismi, a fronte di problemi occupazionali e/o di sviluppo che le parti ritengano significativi, rinviando agli stessi Ccnl la definizione e regolazione delle clausole medesime. In questo senso peraltro ci è di conforto l’esperienza del Contratto nazionale dei chimici, stipulato da Cgil-Cisl-Uil, che già da quattro anni ha regolamentato la materia, prevedendo che eventuali deroghe potranno essere concordate tra le parti a livello locale, ma dovranno essere autorizzate dal livello nazionale, sempre congiuntamente, e in ogni caso non potranno avere per oggetto la modificazione dei minimi tabellari e i diritti “indisponibili”.
Allora, invece di sollevare inutili allarmi, il sindacato dovrebbe confrontarsi su questi aspetti, prevedendo ambiti, vincoli, limiti e obiettivi per l’applicazione delle deroghe, posto che è interesse di tutte le Organizzazioni sindacali circoscrivere tali deroghe, impedendo abusi, ed evitando il rischio, per la verità remoto, di introdurre modificazioni ai principi di inderogabilità delle norme del Ccnl ad opera della Contrattazione aziendale.
Il rinnovo del contratto dei metalmeccanici e le nuove regole
Se non vi fossero state le nuove regole, dovremmo chiederci, come avrebbero rinnovato il loro contratto nazionale i sindacati metalmeccanici italiani? Avrebbero presentato una piattaforma unitaria per il biennio salariale, presumibilmente chiedendo il recupero dell’inflazione reale (ossia la previsione dell’andamento del costo della vita Istat nel periodo), posto che la distribuzione della produttività avviene a livello decentrato. Di fronte a questa proposta, la Federmeccanica ci avrebbe tenuto sei mesi al tavolo di trattativa spiegandoci l’incoerenza di questa proposta con il protocollo del ’93 (sull’inflazione programmata) e la non compatibilità con l’attuale situazione di crisi. A questo punto Fim-Fiom-Uilm avrebbero proclamato (e realizzato?) almeno 60 ore di sciopero, avrebbero cominciato a invadere strade e stazioni, si sarebbero fatti convocare dal Governo, per giungere infine e con 11 mesi di ritardo, ad un accordo di rinnovo “da tempo di crisi”, sperimentando nuovamente l’indennità di vacanza contrattuale, le “una tantum” rateizzate, tranche di aumenti salariali non ricche, magari l’ennesimo allungamento della durata del contratto a 30 mesi, per totalizzare un aumento a regime in linea con l’inflazione reale (ovvero con l’indice Istat del costo della vita). E ciò solo nella migliore delle ipotesi. In quella peggiore, infatti, andrebbe considerato il comportamento ritorsivo (già tenuto dagli imprenditori nel precedente rinnovo) di erogare unilateralmente anticipi ai lavoratori, con l’esplicito intento di spiazzare e mettere fuori gioco la contrattazione collettiva. Per cui, in assenza di un quadro di regole rinnovato e adeguato avremmo rivisto lo stesso film degli ultimi rinnovi del contratto nazionale. Federmeccanica avrebbe “subito” la forza dei lavoratori metalmeccanici, e si sarebbe ancor più convinta della bontà del proprio mai sopito intendimento di ridimensionare il contratto nazionale. In questo scenario, la invocata “modernizzazione” delle relazioni industriali sarebbe ancora una volta rimasta al palo. Ma quel che più conta: i lavoratori metalmeccanici malgrado tanti scioperi – forse utili – si sarebbero ritrovati tuttavia con meno soldi in tasca. Siamo persuasi che questo vecchio modello sindacale non interessa più ai lavoratori. Non si può, infatti, teorizzare di “allargare” il conflitto per migliorare i diritti, e ridurci ogni volta a doverlo concentrare sempre sui medesimi obiettivi, che non si consolidano mai. Si rischia di fare solo molta fatica senza però fare un minimo passo.
La riforma del sistema contrattuale può invece aiutarci a fare qualche passo in avanti, al contrario di quanto sostiene la Cgil preoccupata che possa distruggere la contrattazione o diminuire le tutele sindacali. Sostanzialmente, con la riforma, si è operata una manutenzione dell’impianto del 1993, per renderlo più efficiente, maggiormente adeguato al contesto produttivo e più efficace nella salvaguardia del potere di acquisto delle retribuzioni; un impianto, peraltro, che se non dovesse funzionare può essere rinegoziato alla scadenza dei quattro anni, ossia al termine della sperimentazione prevista.
Legittimità delle disdette del Ccnl da parte di Fim-Uilm e di Fiom, e rappresentatività delle Organizzazioni sindacali
Accanto ai problemi di merito, la Cgil ha posto anche la questione della legittimità della disdetta del contratto dei metalmeccanici da parte di Fim e Uilm. In proposito, innanzitutto va chiarito che le disdette sono state due: quella di Fim e Uilm, al fine del rinnovo della parte economica e normativa, e quella della Fiom al fine del rinnovo della sola parte economica. E’ perciò incomprensibile lo “scandalo” suscitato (secondo la Fiom) dalla disdetta di Fim e Uilm, siamo infatti di fronte ad un fatto procedurale necessario per poter avviare la trattativa di rinnovo del Ccnl. E’ evidente che il problema discende dalla diversa valutazione fatta tra Cgil da una parte, e Cisl e Uil dall’altra, del protocollo del 15 aprile con Confindustria, e dai relativi impegni assunti da ciascuno rispetto al protocollo stesso. Ma in tal caso il problema è di ordine politico-sindacale non di legittimità. La legittimità formale di ciascuna organizzazione sindacale di agire e di stipulare contratti infatti deriva dai principi costituzionali di libertà sindacale, e non, come sostiene la Fiom, dal principio di maggioranza e della “democrazia diretta” .
Nella definizione della rappresentanza e della rappresentatività la realtà ci presenta infatti problemi diversi e contrastanti:
• Nella categoria dei metalmeccanici si pone il problema della reale valenza di una rappresentanza che raggiunge circa 600.000 lavoratori (tanti sono quelli coinvolti dal referendum di Fim e Uilm e da quello della Fiom), e che non risponde all’esigenza di tutela di circa un altro milione di lavoratori metalmeccanici non iscritti e non coinvolti.
• Un secondo aspetto attiene di converso alla validità generale del protocollo del 22 gennaio, che dovrebbe essere impegnativo per tutte le organizzazioni sindacali pur non essendo stato sottoscritto da tutte le Confederazioni sindacali, derivando tale rappresentatività generale dal fatto che Cisl e Uil rappresentano la maggioranza relativa degli iscritti ai Sindacati.
Sappiamo che il problema dell’efficacia soggettiva dei contratti non è ancora risolto in via definitiva, tanto più in una situazione nuova, non solo di pluralismo sindacale, ma anche di pluralità di accordi (o non accordi) contrattuali. Va aggiunto per la verità che un contributo in tal senso è offerto dalla stipula degli accordi da parte della Confindustria (e quindi di Federmeccanica), tenuta ad applicare i nuovi accordi alla generalità dei lavoratori dipendenti dalle aziende associate, salvo l’esplicito dissenso dei singoli.
D’altra parte anche la strada referendaria, propugnata populisticamente da alcuni, rischia di aggravare e non risolvere le fratture, e di risultare una scorciatoia illusoria a problematiche che richiedono un impegno di analisi e proposta che faccia sintesi delle diverse, tutte legittime e rispettabili, opinioni. Ci auguriamo che i giuslavoristi sappiano valorizzare l’impegno contenuto nella piattaforma Cgil-Cisl-Uil del 2008 di rivedere le regole della democrazia e rappresentatività, e sappiano contribuire allo sforzo necessario per individuare percorsi di uscita da una situazione di notevole incertezza.
Nel frattempo ciascuna Organizzazione sindacale dovrà sapersi misurare con i problemi concreti della rappresentanza e della contrattazione, che non possono essere ridotti a pura e semplice espressione di opinione, ma richiedono necessariamente un’assunzione di responsabilità politica, poiché, come si comprende, l’attività negoziale non è unilaterale, ma si confronta con soggetti rappresentativi che esprimono interessi diversi e tra essi spesso confliggenti, che volta a volta, a seconda delle fasi economiche, trovano punti di equilibrio nuovi – e si spera più avanzati – nella regolazione delle condizioni di lavoro.