di Pietro Gelardi – presidente di Edizioni Lavoro
Anche in politica l’albero si riconosce dai frutti e il Partito democratico non sfugge alla regola. La risposta vera sulla sua forza e utilità la daranno gli elettori. Solo se il Partito democratico diventerà la prima formazione politica italiana potrà dirsi che ne è valsa la pena e che i soci fondatori hanno visto giusto.
Fino ad allora è raccomandabile cautela, sia tra i fautori più o meno accaniti, sia fra i critici più o meno ostili. Ai primi è giusto ricordare che certi entusiasmi sono esagerati: la nuova “cosa” nasce anche dal prolungato smarrimento dei fu comunisti, incapaci di fare i conti sino in fondo col loro passato e la loro presunta diversità, e dall’urgenza tattica di rimediare per Prodi il sostegno autonomo che non ha saputo guadagnarsi da solo (né nel Partito popolare né nella Margherita). Che poi a beneficiarne sia Veltroni dimostra che, come suggeriva la buonanima di Stalin, per vincere la guerra servono le armate.
E’ il caso di far notare che il Partito democratico non sembra avere alcun precedente in Europa, dove i leader (vedi Blair, Merkel, Sarkozy) i partiti li conquistano di persona a lacrime e sangue, non per procura, e dove la sinistra che si è liberata dei suoi fantasmi ha il coraggio di continuare a chiamarsi col proprio nome. Agli scettici e agli oppositori occorre obiettare che la storia non è obbligata a ripetersi e che, nel panorama italiano, l’originalità un po’ avventurosa è rimasta forse l’unica via d’uscita contro ritardi e ambiguità cumulatisi nei decenni. Siamo l’unica nazione occidentale che ha dovuto aspettare le macerie del Muro di Berlino per interrogarsi sulla sua fisionomia politica e sul suo modello di democrazia. Questo è un segno di immaturità che viene da lontano ma che potrebbe rivelarsi vantaggioso. Arrivati per ultimi, chissà che non riusciamo a essere più veloci e lungimiranti degli altri.
La sfida merita fiducia proprio perché azzardata. Ma la prima ragione di prudente consenso è nello stato di crisi profonda in cui versa la politica nazionale, giunta a un livello di inconcludenza, frammentazione e discredito quasi senza paragoni. La transizione verso una Seconda repubblica che desse legittimità ed efficacia ai governi, e restituisse responsabilità e capacità di guida ai partiti, è giunta a un punto morto. Dieci partiti al governo, oltre una ventina negli scranni parlamentari, un centinaio in giro per il paese sono un’aberrazione che porta a una democrazia senza popolo e senza controlli. Da qui il ritorno degli spiriti animali dell’antipolitica qualunquista e del particolarismo categoriale. Di qui l’incomprensione e il fastidio dei cittadini verso le istituzioni, pletoriche, esose e inerti. Populismo, stallo ed elefantiasi dei poteri pubblici non si combattono né con le prediche virtuose né con gli anatemi scandalizzati. Destra, centro e sinistra sono colpevoli in eguale misura di questa deriva: il corporativismo della magistratura non è meno drammatico di quello degli evasori o dei dilapidatori della spesa, mentre il malgoverno, autoritario e faraonico, non ha colore o confini regionali. Su tutti grava il compito di fermarla, pena il declino rapido dell’intero sistema.
Il Partito democratico dichiara di volerlo fare, andando oltre gli errori e le beghe di casa nostra. Perché non credervi? Se le ideologie sono state un nobile motivo di divisione, oggi sono per lo più una superstizione e una rendita. Per quei partiti che si muovono verso direzioni e traguardi comuni, la ricomposizione è opportuna. Si semplificano gli schieramenti, si agevola un bipolarismo serio basato su schieramenti omogenei, si modificano il linguaggio e i comportamenti, sostituendo alle dispute oziose sui fini supremi i confronti sulle cose da fare. Si spinge chi non ci sta a rimeditare i suoi articoli di fede. Sarebbe bello che ciò avvenisse sia a destra che a sinistra, anche se le prime reazioni consigliano di tenere molta pazienza. Lasciamo stare la destra, bloccata dal terrore del parricidio, ma la sinistra radicale è afflitta da una coazione a ripetere devastante. Vive ormai di riflessi pavloviani.
Perché abbia risultati, il Partito democratico dovrà trovare consensi al di fuori delle aree da cui proviene. Al centro, tra chi è ancora vittima del sortilegio del berlusconismo; a sinistra, tra chi in buona fede resiste a congedarsi dall’antagonismo fine a se stesso. Non potrà perciò essere una sommatoria di apparati e di liste precedenti e dipendere solo da accordi di vertice. Più chiarezza sui programmi e più apertura verso l’esterno. Più partecipazione di donne e uomini della società civile, meno affollamento di figli e nipoti d’arte e di professionisti del potere. Questo sembrano capirlo tutti, ma i vizi sono duri a morire e dalle primarie – quali e quanti siano i candidati – non è lecito attendersi granché. La spinta a cambiare verrà dalla realtà, dalle incognite che pesano sul futuro del paese: innovazione produttiva, ricerca, formazione, mercato del lavoro, welfare, fisco, riforme istituzionali, debito pubblico. Un autentico partito riformatore – per cortesia, si eviti di chiamarlo riformista, parola sempre usata in senso spregiativo dalla sinistra estrema – si qualificherà per la nettezza delle sue opzioni e delle sue decisioni. Non potrà piacere a chiunque né avere complessi di inferiorità verso chi insegue “altri mondi possibili”. Dovrà aiutare il Paese a fare il salto verso una modernità, se non sostenibile, almeno passabile.
Il Partito democratico dovrà sfuggire alla tentazione di un legame preferenziale col sindacato confederale. E questo farà bene a non cedere ad alcun bisogno di protezione, comprensibile forse in tempi di incertezza totale ma dannoso. Un rapporto ravvicinato, sino alla amichevole e tenace corrispondenza, ci riporterebbe ai tempi del collateralismo da guerra fredda, che è merito del movimento dei lavoratori italiano avere superato. Sarebbe oltretutto anacronistico, date la complessità e la frantumazione delle istanze individuali e collettive tipiche di una società avanzata. L’autonomia sindacale garantisce libertà reciproca e dialettica vera con la sfera della politica; ha come sua conseguenza e limite invalicabili l’autonomia dei partiti. Questa si traduce nell’affermazione di un ruolo e di un’identità esclusivi e nella ricerca, faticosa e ingrata, degli interessi generali della cittadinanza. Sembrano banalità ma, come ci ricordava Bobbio, l’essenza della democrazia consiste nel rispetto di un rigoroso gioco delle parti e di un altrettanto rigido equilibrio dei poteri.
Un bipolarismo sano che sia di supporto a un’alternanza costruttiva – in cui la destra non ostacoli, a qualunque costo, le riforme della sinistra e viceversa – permetterà al sindacato di svolgere il suo mestiere di agente contrattuale e concertativo senza paura di essere usato per le convenienze di questa o quella controparte, di questo o quel governo. Due condizioni mi paiono fondamentali: una rinnovata iniziativa delle parti sociali, sindacali e imprenditoriali, per dare luogo a relazioni stabili sui temi del lavoro e della produttività; la ripresa della concertazione sui grandi temi della crescita e della competitività del paese. L’accordo del 23 luglio costituisce un esempio molto significativo di concertazione. Sconfessa quanti hanno accusato il sindacato di non avere titolo a intervenire su questioni troppo grandi per i “vecchi” iscritti che rappresenta, e quanti si erano affrettati di dichiarare Prodi morto.
Per ironica coincidenza, questo accordo si porrà in autunno come il più severo e attendibile banco di prova delle buone intenzioni del Partito democratico. Altro che primarie.