Chi ha paura dell’inflazione? Ma anche: c’è da aver paura dell’inflazione? Incrociate le due domande con relative risposte e avrete la mappa di un dibattito – adesso sottotraccia, ma solo per poche settimane ancora – che sembra uscito dalla preistoria pre-Covid e che, però, può influenzare profondamente la prossima traiettoria di buona parte dell’economia europea, a partire da quella italiana, all’insegna di una clamorosa marcia indietro.
A parlare, con la abituale fragorosa frenesia, di inflazione sono, oggi, soprattutto le Borse. L’esperienza degli ultimi anni con il vistoso scollamento fra mercati finanziari in ascesa ed economia reale in picchiata induce a prendere questi segnali con molto scetticismo. L’impressione ricorrente è che chi gravita intorno alle Borse sia pronto a rincorrere qualsiasi cavallo pur di muovere i listini e il business. E, in effetti, una inflazione indubitabilmente c’è. Le massicce immissioni di liquidità operate dalle banche centrali per tamponare la recessione hanno gonfiato i valori dei dei titoli azionari e obbligazionari, spesso alternativamente gli uni o gli altri. Nessuno parla esplicitamente di bolla, ma i valori sono sicuramente inflazionati e, alla lunga, probabilmente insostenibili. Ma questa inflazione dei titoli non è l’inflazione di cui tutti parlano.
Che ne è dunque della vecchia, nota inflazione, quella dei prezzi dei beni e servizi, del barbiere e della mortadella, che troviamo riflessa nel costo della vita? Negli Usa ad aprile si è andati oltre il 4 per cento rispetto ad un anno fa, anche se l’indicatore dei prezzi preferito dalla Fed segna un più modesto aumento dell’1,8 per cento. In Germania si viaggia verso il 3 per cento, nell’eurozona la previsione 2021 è 1,7 per cento. In Italia abbiamo registrato l’1,1 per cento ad aprile, in accelerazione rispetto a marzo. Non sono ritmi mozzafiato, ma, rispetto al gelo dei mesi scorsi, sembra quasi che l’economia si surriscaldi. Suonare, dunque, a distesa la sirena d’allarme? Avanti, sarà ancora più caldo. Gli economisti, infatti, non hanno dubbi: “il picco dell’inflazione – dicono – ci sarà fra maggio e giugno”.
Il picco, appunto. Una ripresa dell’inflazione era, infatti, largamente attesa in questi mesi. Ritenuta inevitabile. Anzi, segno di buona salute. La crisi della pandemia, le quarantene, i lockdown hanno creato un arretrato di domanda che, adesso, arriva sul mercato. E non trova l’effetto corrispondente nell’offerta, perché la lunga paralisi ha scardinato le normali catene di fornitura, creato imbuti e strozzature, tanto più in un sistema economico che, ormai, all’insegna del just-in-time, ha sostanzialmente abolito riserve e magazzinaggi. Man mano che le prospettive dell’economia si schiariscono e la paura delle varianti si attenua, lo squilibrio domanda-offerta sarà più evidente. Ma, per lo stesso motivo, anche transitorio: man mano che le prospettive si schiariscono, infatti, anche produzione e distribuzione torneranno alla normalità. Le tensioni sui prezzi, dunque, si attenueranno nei prossimi mesi e, nel 2022, saranno pienamente rientrate. La previsione per l’eurozona è in discesa a più 1,3 per cento l’anno prossimo. Negli Stati Uniti, gli stessi mercati non prevedono inflazione sostenuta a medio termine. I prezzi non possono correre, dicono gli economisti, perché non ci sono, da nessuna parte, segnali di pressioni per aumenti salariali, anche là dove l’economia ha ripresa a marciare. E, senza la benzina del costo del lavoro, un aumento prolungato e sostenuto dei prezzi viene ritenuto molto improbabile.
Questo pensa il grosso degli economisti e questo dirà, probabilmente, all’inizio di giugno, la nuova previsione a medio termine dei tecnici della Bce, da servire, calda calda, al dibattito, il 10 giugno, nel vertice della banca centrale. Anche se analoga a quelle che vengono da altre fonti, la previsione della Bce è più importante, perché è alla Bce che il dibattito sull’inflazione può avere subito importanti ricaschi operativi. Rimasta sopita per tutti i mesi della pandemia, infatti, la tradizionale divisione fra falchi e colombe sta riemergendo con forza, in queste settimane, a Francoforte, inasprita dal fatto che i falchi (i paesi del Nord) hanno subito meno la pandemia e si stanno liberando più in fretta della sua presa sull’economia, rispetto alle colombe (i paesi del Sud).
L’inflazione è il più visibile, ma non l’unico segno che, secondo i falchi, stiamo uscendo dalla crisi e, dunque, si possono cominciare a smontare gli strumenti di espansione generosamente impiegati al culmine della pandemia. In particolare, il programma straordinario di acquisto di titoli pubblici, che ha frenato gli spread. Nel complicato mondo della politica monetaria, questo non significa affatto decisioni immediate. Ma, quando i destinatari dei messaggi sono i sovraeccitabili mercati finanziari, basta far sapere anche solo che si sta pensando ad una data in cui cominciare ad apparecchiarsi a tirare i remi in barca perché tutti diano per scontato che, presto, non ci saranno più le difese della Bce a tutelare il debito pubblico dei paesi più deboli. Per l’Italia significa veder ridisegnarsi all’orizzonte il rischio spread, in un momento in cui il debito pubblico italiano è esploso a livelli record e la ripresa è ancora elusiva.
Passeremo, probabilmente, l’estate a danzare intorno a questi temi e a questi rischi. E anche ad una più generale questione di principio. Sono anni che la Bce rimane ben al di sotto dell’obiettivo statutario di una inflazione a ridosso del 2 per cento. Vuol dire che, appena risalita a quel livello, si deve dichiarare soddisfatta e frenare? Oppure, quel 2 per cento va inteso come una media in un periodo di più anni, in modo da consentire un recupero di energia e vivacità rispetto alla gelata precedente? A ben vedere, sono due Europe diverse. In fondo, è la riedizione, in versione light, del dibattito austerità sì – austerità no. Chi pensava che con il Recovery Fund lanciato un anno fa, quel dibattito fosse esaurito, si sbagliava.
Maurizio Ricci