“Resistere a intemperie è parte della natura dell’Italiano” afferma perentoriamente il senatore leghista Claudio Borghi. Il maiuscolo di Italiano non è un refuso e la frase dà l’impressione, un po’ straniante, di essere pronunciata con la mascella serrata e protesa in avanti. Ma il senso è tutto meno che bellicoso. Anche l’uso del termine, un po’ neutro, “intemperie” per raccontare gli alberi che volano in Veneto o i chicchi di grandine grossi come mele in Lombardia, fa parte piuttosto dello sforzo di smorzare, banalizzare i disastri climatici di questi giorni, declassificandoli a semplici intemperanze meteo, che sarebbero ben radicate nell’esperienza storica del paese. La deriva è la stessa sperimentata con i No Vax e, poi, i No War (anche se sarebbe più corretto parlare di No Usa): il rifiuto, di pancia, ad accettare la narrazione delle élite (scienziati, intellettuali, giornalisti) e l’immediata condanna di questa narrazione, come subordinata ai grandi interessi economici (si tratti di Big Pharma, dell’industria delle armi o delle auto elettriche).
Altro che emergenza, insomma, si affanna a spiegare la velina populista: non è successo nulla. Eppure, anche una materia complessa come la fisica dell’atmosfera segue leggi abbastanza semplici: in un metro cubo d’aria, ogni aumento di un grado di temperatura comporta un aumento del 7 per cento dell’umidità che trattiene. Una massa d’aria più calda di 5 gradi rispetto al normale, ha, dunque, anche il 35 per cento in più di umidità. Quando sale e si raffredda, l’acqua cade non a gocce, ma a secchiate o con chicchi di grandine come palle da golf. Dunque, il problema è: questo riscaldamento c’è stato o no? La risposta, non degli scienziati, ma del termometro è inequivocabile: non solo questo luglio è, a livello mondiale, il mese più caldo mai registrato, in quasi due secoli di monitoraggio; non solo in ogni singolo giorno del mese, tranne uno, la temperatura media ha superato il record precedente. Ma, probabilmente, è il mese più caldo degli ultimi 120 mila anni.
La temperatura globale, tuttavia, è un concetto un po’ astratto (la media di 17 gradi fa impressione solo se pensate anche all’inverno australe, ai poli e alle notti). In concreto, da noi come va? La risposta è: peggio, purtroppo. Nel Mediterraneo e, in particolare, in Italia, aria, terra e mare, si riscaldano più in fretta della media del pianeta.
Un’analisi spassionata del clima del nostro paese da fine ‘800 ad oggi e dei suoi effetti viene da una ricerca condotta – provincia per provincia – dall’ufficio studi della Banca d’Italia. Ne risulta che, a livello globale, il mondo, dalla rivoluzione industriale – dunque da metà ‘700 – si è riscaldato di 1,1 gradi, appena meno dell’1,5 gradi fissati come tetto alla Conferenza di Parigi del 2015. Ma l’Italia – senza differenze significative a livello territoriale – quel tetto lo ha stracciato da tempo. La temperatura media è salita di 2 gradi, soltanto da fine ‘800. Stiamo anticipando tutti.
E il conto sarà salato. Nel corso del ‘900, mentre la temperatura media del paese saliva di 2 gradi, il Pil pro capite cresceva, in media, del 2 per cento l’anno. Ma con produzione e produttività, soprattutto nell’agricoltura e nei servizi, fiaccate dal caldo, possiamo scordarci questa ricchezza in aumento. Saremo invece più poveri di quanto saremmo stati a temperature costanti. A occhio, non vedremo mai un decimo della ricchezza che ci spetterebbe senza il disastro del clima. E il calcolo che fanno i ricercatori della Banca d’Italia è anche ottimistico. Presuppone, infatti, che la temperatura media, in Italia, anziché dei due gradi del secolo scorso, salga solo di 1,5 gradi. Ma basta l’aumento delle giornate con temperature oltre i 28 gradi per azzoppare ancor più lo sviluppo. Ogni dieci anni, scopriremmo che il paese è cresciuto l’1 per cento in meno di quanto avrebbe potuto, mantenendo il ritmo (pur non esaltante) di fine ‘900. A fine secolo, i nostri nipoti avranno un Pil pro capite inferiore più o meno del 10 per cento rispetto ad un clima più normale. Questo, naturalmente – mettono le mani avanti in Banca d’Italia – considerando solo gli effetti a lungo termine sull’economia dei cali di produzione e produttività legati al caldo. Se poi le alluvioni sommergono i frutteti, le trombe d’aria sradicano i capannoni, le ondate di calore scatenano gli incendi e il paese si ritrova in ginocchio, impoverito da disastri, calamità e catastrofi, il conto sarà un altro e resistere sarà difficile anche per l’Italiano.
Maurizio Ricci