“Speriamo che l’8 marzo possa diventare anche il viatico per discutere seriamente con il Governo Gentiloni di misure fiscali e contributive per fare costare meno l’occupazione stabile, soprattutto quella delle donne, di politiche attive del lavoro, alternanza scuola-lavoro, più investimenti in innovazione, ricerca, formazione”. E’ quanto sottolinea il segretario generale della Cisl, Annamaria Furlan, in un intervento pubblicato dal Messaggero.
“Le donne hanno pagato anche il prezzo più alto della crisi economica di questi anni: sono state le prime a precipitare nell’area della povertà – aggiunge – ecco perché il lavoro resta il primo diritto di cittadinanza e di emancipazione che bisogna ancora conquistare.”
Il leader della Cisl fa riferimento ai dati relativi alla disoccupazione femminile in Italia, che vedono le donne, soprattutto nelle regioni meridionali, “escluse da ogni possibilità di riscatto e di partecipazione alla vita economica del Paese.”
“Anche sul piano delle retribuzioni, le donne guadagnano quasi il 10% in meno rispetto agli uomini (in Europa la media è del 17%). Uno dei motivi – continua Furlan – è che le donne hanno più difficoltà a conciliare impegni di lavoro e familiari. Di conseguenza, sono loro, soprattutto, a scegliere il lavoro a tempo parziale ed ad interrompere continuamente la propria carriera, con conseguenze dirette sui salari e sulle future pensioni. La parità di retribuzione sarebbe un grande stimolo ai consumi ed all’economia europea e solleverebbe milioni di donne dalla povertà. Questa è la battaglia che stiamo portando avanti insieme alla Ces, il sindacato europeo”.
Secondo Furlan anche la maternità viene vista ancora come un ostacolo all’ingresso ed alla progressione di carriera: “Non è un caso se in fatto di natalità il nostro paese è tra gli ultimi posti in Europa come hanno confermato i nuovi dati dell’Istat.Una donna su 3 lascia il lavoro dopo la nascita del primo figlio.”
“Rispetto al resto dell’Europa in Italia sono ancora poche le madri con un bambino che lavorano (57,8% contro 63,4%) e, soprattutto, se paragonate agli uomini (86%). Quando poi i bambini crescono i numeri crollano al 35,5% (la media Ue è del 45,6%). In molti casi la rinuncia alla maternità va collegata direttamente anche all’inadeguatezza di servizi a sostegno della genitorialità. In Italia solo il 18% dei bambini trova posto negli asili nido pubblici, mancano politiche finalizzate alla conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, allo smart working, alla flessibilità negli orari. Non è solo un problema di leggi da far rispettare. Dobbiamo fare di più con la contrattazione nazionale, aziendale e nei territori – conclude il segretario – , ponendo le condizioni per una valorizzazione ed una specificità del lavoro femminile”.