di Paolo Pirani, segretario confederale Uil
Il dato più significativo emerso dal risultato elettorale è che il nostro sistema è diventato veramente bipolare, forse bipartitico. Gli italiani, scegliendo fra due persone, che rappresentavano due diverse opzioni politiche, sembra che abbiano fatto terminare la lunga transizione avviatasi all’indomani del crollo della cosiddetta Prima Repubblica. Non solo: il risultato elettorale presenta novità di rilievo storico, come l’esclusione dall’alveo istituzionale di alcune forze, a destra e a sinistra, che avevano un profondo legame con la cultura politica del nostro paese.
Ma il venir meno della rappresentanza parlamentare di queste culture significa anche la loro esclusione dal paese reale e la definitiva scomparsa di sensibilità di cui erano espressione? E la costruzione di nuove forme di rappresentanza politica, culminata nella tornata del 13 e 14 aprile in che modo possono tenere conto del travaglio che attraversa una parte rilevante del corpo elettorale? A mio giudizio sono i partiti che dovranno trovare soluzioni a queste esigenze e a queste aspettative. Invece, sarebbe un gravissimo errore se il sindacato, portatore di valori che affondano le radici anche in alcune di quelle culture, si cimentasse nell’interpretarle sul terreno della rappresentanza politica o, peggio ancora, partecipando direttamente alla costruzione di una qualche soggettività politica.
Il risultato elettorale ha delle implicazioni concrete per il sindacato. Evidenzia una forte domanda sociale, priva di incrostazioni ideologiche, che ci chiede un radicamento ancora maggiore nei luoghi di lavoro e la capacità di trasformare la drammatica emergenza salariale in fatti concreti sul piano contrattuale. Sarebbe dunque esiziale la sovrapposizione tra dinamiche elettorali e ruolo del sindacato, anche perché sono diversi lustri che la rappresentanza politica è cosa a sé stante dalla rappresentanza sindacale.
In considerazione di ciò, è la stessa rappresentanza sindacale che diventa sempre più selettiva e si concentra principalmente sulle questioni economiche e sul lavoro. Insomma, come è già accaduto per gli altri paesi occidentali, lo scambio politico non vale più. In tal senso diventa emblematica la vicenda dell’Afl-Cio che nel 2005 subì una profonda scissione che riguardò alcune importanti categorie, proprio per la sua esplicita contiguità con il partito democratico statunitense.
Per ritornare a noi e alla nostra realtà, la principale caratteristica del mondo del lavoro italiano risiede nell’esercizio costante della democrazia sindacale: dal quotidiano confronto per l’elezione delle Rsu nelle fabbriche, negli uffici e nelle aziende di servizi, fino alle fasi di straordinaria mobilitazione con i conseguenti risultati che ne sono scaturiti. Il voto sul welfare, ad esempio, ha fatto registrare, a stragrande maggioranza, un’opzione riformista andando nella direzione opposta a quella indicata apertamente dalla cosiddetta sinistra radicale. Il risultato elettorale conseguito da questa area politica, in qualche misura, ha sanzionato quanto già avvenuto nei luoghi di lavoro. Oggi, però, il sindacato deve affrontare un tema, per così dire, ontologico, legato cioè alla sua natura, al suo essere: il sindacato o contratta oppure non è.
Da ciò discende l’urgenze di una revisione dell’impianto contrattuale e di una ridefinazione del ruolo del sindacato. Il sindacalismo confederale, e specularmente anche quello espressione dell’associazionismo imprenditoriale, sono seriamente minacciati dall’incapacità di tutelare il potere d’acquisto e i salari dei lavoratori. Le esternazioni recenti di Montezemolo appaiono tardive e soprattutto affatto convincenti, perché la sua direzione confindustriale ha sostanzialmente avallato le posizioni della Cgil di Epifani nel suo continuo ed estenuante stop and go. Il risultato di questa sciagurata e miope linea sindacale è che i lavoratori dipendenti si sono progressivamente impoveriti, sia per la crescita vertiginosa di prezzi e tariffe, sia a causa di un fisco iniquo ed inefficace.
Ecco perché in cima alle nostre priorità c’è la rivendicazione di una politica fiscale in grado di correggere strutturalmente queste storture. Il governo Prodi non c’è riuscito. Più volte, nei confronti dell’Esecutivo da lui presieduto, abbiamo reclamato la riduzione delle tasse sul lavoro dipendente. Ovviamente, non siamo stati ascoltati, smentendo così chi, troppo superficialmente, aveva affermato una coincidenza programmatica tra sindacato e governo di centrosinistra. E’ l’ennesima dimostrazione, qualora ce ne fosse ulteriormente bisogno, che in politica i fatti contano più delle parole. In sostanza, se il sindacato vuole uscire dall’angolo e recuperare una nuova centralità deve azionare fondamentalmente due leve: la politica contrattuale e quella fiscale. Per consentire non solo una scontata e indilazionabile crescita salariale, ma per ravvivare indirizzi di politica economica finalizzati allo sviluppo e alla crescita del paese.
E’ infine necessario che il sindacato abbia autorevolezza non in virtù degli inviti a Palazzo Chigi o, peggio ancora, nei salotti televisivi, che contribuiscono a screditare il sindacato perché legittimato dalla compiacenza politica, prescindendo dalla rappresentanza effettiva. Occorre, quindi, superare le autocertificazioni, avviare un intenso processo di partecipazione alle scelte strategiche, misurare, ogni qualvolta è necessario, elettoralmente la rappresentanza, prevedere procedure corte e vincolanti relativamente agli accordi da sottoscrivere e agli scioperi da proclamare. E’ attorno a queste tematiche che il sindacato si gioca molto della sua credibilità e della possibilità effettiva di un’autoriforma concreta. Il tempo a nostra disposizione è ampiamente scaduto e le possibilità di recupero sono affidate ad un percorso unitario che deve essere scevro da tatticismi e da pratiche dilatorie.