La complessa triangolazione fra misure antinflazione della Bce, spread fra titoli di Stato europei e misure annunciate dalla stessa Bce per contrastare proprio l’esplosione di questi spread ha fatto riemergere un “caso Italia”, il paese più fragile nell’attuale tempesta. I motivi di questa fragilità sono vari, ma il più determinante è l’eredità di un debito pubblico che ha radici antiche, negli anni ’80 del tramonto della Prima Repubblica. Se sono vere le indiscrezioni sugli umori all’interno della stessa Bce, tuttavia, le difficoltà, agli occhi di alcuni, si riassumono nel riemergere di un pregiudizio consolidato da tempo fra i banchieri del Nord Europa: l’Italia – dicono questi critici, più o meno gli stessi che il fallimento delle politiche di austerità aveva costretto a tacere negli ultimi anni – faccia finalmente le riforme. La critica è, oltre che ingenerosa, ingiusta. Non solo l’Italia di Draghi le riforme le sta già facendo ora, con il Pnrr, ma le sta attuando da almeno dieci anni. Su una cosa, però, gli austeri banchieri d’Olanda o di Germania hanno ragione: le riforme non sono solo un esercizio di propaganda. Le riforme funzionano: sono servite, servono, serviranno. In altre parole, producono ricchezza e quattrini. Anche quelle già attuate. Una ricerca della Banca d’Italia mette una targhetta e un numero sul processo di riforma avviato nello scorso decennio. Senza quelle riforme, il Pil italiano al 2030 sarebbe più basso del 6 per cento. Ad occhio, e grosso modo, 120 miliardi di euro in meno.
Per questi 120 miliardi di euro in più, che ci ritroveremo nelle tasche, dobbiamo ringraziare soprattutto Mario Monti, Corrado Passera, Paola Severino, e poi Matteo Renzi e Carlo Calenda. Sono loro gli autori dei tre pacchetti di riforme che, a partire, rispettivamente, dal 2011 e dal 2016, hanno dato una spinta decisiva alla produttività del sistema economico italiano. I governi successivi hanno, comunque, avuto il merito di confermarle e ampliarle. La ricerca della Banca d’Italia si concentra, infatti, sui benefici di alcune specifiche riforme su tutto l’arco dello scorso decennio, provando a misurarne gli effetti con l’aiuto di modelli econometrici. Quali riforme? I decreti Salva Italia del 2011 e 2012 (Monti presidente del Consiglio, Passera ministro dello Sviluppo), lo snellimento delle giustizia civile avviato nello stesso periodo (Severino, ministro della Giustizia). E il pacchetto Industria 4.0 (Renzi presidente, Calenda, ministro). L’imperativo comune? Liberalizzare, sburocratizzare, ammodernare.
La Severino si preoccupò soprattutto di iniziare lo smaltimento dell’enorme arretrato dei tribunali, ma i decreti Salva Italia e Cresci Italia, varati fra dicembre 2011 e gennaio 2012 furono una mezza rivoluzione, per un sistema ingessato come quello italiano. Sono i decreti della riforma Fornero sulle pensioni, con l’aumento dell’età pensionabile e l’universalizzazione del sistema contributivo, della deregulation di orari, aperture di negozi e farmacie e, in generale, della liberalizzazione nell’avvio di un’attività economica e professionale. Per le imprese, sono i decreti che sanciscono la deducibilità dell’Irap sul costo del lavoro e, soprattutto, riducono le tasse sul capitale reinvestito in azienda. E’ il percorso su cui proseguirà con decisione l’Industria 4.0 di Renzi e Calenda, con gli sgravi fiscali sugli ammortamenti (in particolare sugli investimenti in software e in Ricerca&Sviluppo).
Gli effetti registrati sulla produttività (totale, sia del capitale che del lavoro) nel decennio successivo al governo Monti sono vistosi. Gli interventi avviati dalla Severino sui tribunali civili hanno accresciuto la produttività del sistema dello 0,5 per cento, ma gli interventi di liberalizzazione nel settore dei servizi hanno dato una spinta del 3,5 per cento alla produttività, riducendo anche di oltre un punto percentuale le rendite di posizione che le varie barriere all’entrata creavano. Contemporaneamente, gli sgravi fiscali sugli investimenti, introdotti da Passera e poi da Calenda hanno accresciuto dell’1,4 per cento la produttività dell’economia. In termini di Pil, questo si traduce in un prodotto interno lordo più ricco del 3 per cento nel primo decennio di applicazione delle riforme, a cui si aggiunge un secondo 3 per cento nel decennio in corso. A dimostrare che le riforme, anche quando costano, poi rendono.
Maurizio Ricci