L’hanno già chiamato il Comma 22 della politica europea sul clima, una sorta di vicolo cieco dell’ambientalismo. Secondo i rapporti della Iea – l’Agenzia internazionale dell’energia, che è una branca dell’Ocse, l’organizzazione dei paesi industrializzati – è impossibile azzerare le emissioni di anidride carbonica entro il 2050, che è il grande obiettivo di tutti gli ambientalisti, senza il contributo dell’energia nucleare: solo con le rinnovabili non ci si arriva. Ma il nucleare è una via sbarrata per gli stessi ambientalisti, che lo considerano inquinante e pericoloso.
In realtà il vero Comma 22 (ovvero quello inventato nel libro di Joseph Heller sulla Seconda guerra mondiale: chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo) è un circolo vizioso burocratico, mentre quello sul nucleare è un dilemma reale, in cui entrambe le argomentazioni sono (purtroppo) vere. Per orientarsi, allora, occorre intendersi: quale nucleare e quando.
C’è, anzitutto, il nucleare di emergenza. L’emergenza sono i ricatti che Putin moltiplica sul fronte dell’energia, con il taglio delle forniture di gas, come risposta alle sanzioni per l’Ucraina. In questo quadro, sembra ragionevole che centrali atomiche destinate a chiusura più o meno immediata, come quelle tedesche, vengano tenute in funzione ancora per uno o due anni, come si sta facendo per il carbone. Il terreno perso temporaneamente nella lotta alle emissioni può essere recuperato con maggiori sforzi per le rinnovabili, una volta esaurita l’emergenza.
Ma c’è anche un nucleare miracolistico, frutto di una deriva, tutta italiana, del pensiero politico. Lo possiamo definire una invenzione da populismo liberale, quello che spaccia per soluzioni idee apparentemente ragionevoli, ma, sfortunatamente, prive di riscontro nella realtà. Secondo questi liberalpopulisti italiani (come Carlo Calenda, ma anche Salvini), il nucleare, prima ancora che uno strumento per arrivare a zero emissioni fra 30 anni è una chiave per uscire, qui ed ora, dalla crisi dell’energia che l’Italia sta affrontando per liberarsi, nel giro massimo di cinque anni, dalla dipendenza dal gas russo. Lo slogan suona così: basta con il bando al nucleare, facciamo le centrali e avremo risolto il problema.
Nel vorticare di promesse e dichiarazioni, la confusione aiuta i nuovi crociati del nucleare. L’Europa, infatti, sta dando il via libera a nuovi investimenti nelle centrali atomiche, sia pure solo in via transitoria, visto che neanche a Bruxelles piace il nucleare. Ma si tratta di investimenti per ammodernare e migliorare centrali già esistenti. I liberalpopulisti italiani scavalcano con disinvoltura il fatto che, al contrario, in Italia, il nucleare part(irebb)e da zero. Studiare e sperimentare va bene e giustamente l’Italia è presente nei più promettenti esperimenti scientifici nel campo dell’atomo. Ma un vero programma nucleare (vogliamo dire quattro centrali nuove di zecca?) significherebbe concentrare venti-trenta miliardi di euro per la realizzazione di impianti che sfornerebbero il primo kilowatt dopo il 2040. Difficile definire, in queste condizioni, il nucleare una soluzione a portata di mano.
Anche perché, nonostante il gran parlare di nuovo nucleare, di concreto, fuori dalla fase sperimentale, non c’è ancora nulla e, comunque, gran parte dei problemi posti storicamente dall’energia atomica non paiono risolti. Anzi, qualcuno si è anche aggravato.
Ad esempio, nella sicurezza, che è anche, naturalmente, il più importante. Al contrario di Cernobyl e di Fukushima, teatro dei più importanti incidenti nella storia del nucleare, i nuovi reattori dovrebbero spegnersi automaticamente, in caso di improvviso cedimento delle condizioni standard, riducendo così drasticamente le possibilità di incidente. Purtroppo, però, nel caso del nucleare, anche una possibilità remota è allarmante. Mentre con le altre infrastrutture, la portata dell’incidente, per quanto grave, è contenuta nel tempo e nello spazio, l’incidente atomico è potenzialmente planetario e si prolunga per decenni. Il dato nuovo e inquietante, qui, però, non sono le probabilità di incidente. Finora, la sicurezza significava anche sventare un attacco terroristico, ma ora che la guerra si è riaffacciata in Europa, l’attentato non è più la preoccupazione maggiore. Come mostra l’apprensione con cui si seguono gli sviluppi della guerra in Ucraina, l’angoscia è la possibilità di un bombardamento sulle centrali ucraine (per non parlare delle occupazioni sbadate). O anche, semplicemente, una offensiva degli hacker sui software di sicurezza.
Irrisolto continua ad essere anche il problema delle scorie. I nuovi impianti promessi ne produrranno di meno, ma non le eliminano e il loro smaltimento resta un incubo, anche in paesi che da decenni convivono con le centrali atomiche come Francia e Finlandia.
Qualche progresso il nuovo nucleare potrebbe presentare, invece, sul piano economico. Le centrali atomiche tradizionali hanno costi altissimi (6-8 miliardi di euro), dieci volte una centrale a gas e tempi di realizzazione quasi infiniti: la più recente centrale francese è in ritardo di 11 anni sulla tabella di marcia. La promessa del nuovo nucleare è un abbattimento di costi: reattori più piccoli e, soprattutto, realizzati in fabbrica e non sul sito (plug&play, per così dire). Se davvero questo nuovo modello può funzionare dobbiamo ancora vederlo, nonostante le assicurazioni di qualche politico italiano che i nuovi reattori sono pronti da ritirare dallo scaffale. E non si può quindi far di conto. In ogni caso, l’investimento sarebbe ragguardevole. Questo ha conseguenze. Sia perché significa distogliere risorse da altri investimenti nell’energia ( rinnovabili, idrogeno, cattura e sequestro dell’anidride carbonica). Sia perché investimenti massicci richiedono ritorni massicci per compensare i finanziamenti e quindi, in linea di principio, un alto costo dell’energia al consumo.
L’energia atomica, però, ha, probabilmente, un futuro diverso da quello che conosciamo: la fissione, ovvero l’energia ricavata dalla rottura degli atomi. La strada alternativa della fusione (niente scorie, niente radioattività) non è forse così lunga come si pensava. Nelle scorse settimane, a Boston, si è riusciti a produrre – brevemente – più energia con la fusione, di quella applicata per realizzare l’esperimento. Una pietra miliare nella sperimentazione di questa diversa energia atomica. Anche se, per i brindisi, è meglio aspettare. Chi scrive ha raccontato, negli anni ’80, che a Boston giuravano di essere lì lì per arrivare alla pietra miliare già 40 anni fa. Capiremo presto se davvero questa è la svolta decisiva. Tuttavia, i politici italiani possono stare tranquilli. L’Italia non è affatto fuori dalla corsa alla nuova energia atomica. L’esperimento cruciale di Boston è finanziato dall’Eni.
Maurizio Ricci