Il Governo del Cambiamento ha appena un mese di vita, ma non occorre essere uno studioso della politica per concludere che, ancor prima del Cambiamento, il panorama della nuova legislatura presenta almeno due caratteri assolutamente originali. Il primo riguarda non il governo, ma l’opposizione. Il secondo, invece, il governo. O, meglio, i governi. Perché sono almeno tre.
Nella storia della Repubblica, non era mai successo che il governo in carica non avesse un’opposizione. Nel senso che l’opposizione, in realtà, nei numeri c’è, ma, sia nel Parlamento, sia nel paese, non si vede. Il secondo partito italiano, il Pd, dal giorno delle elezioni è caduto in uno stato di confusione e di afonia: produce qualche mugugno, ma né una proposta, né un’idea, nonostante abbia governato fino a ieri e dovrebbe avere l’immagine più nitida della situazione. Da quel che si capisce, inoltre, il partito, occupato a guarire le sue ferite, non ricomparirà sulla scena prima della prossima primavera (o anche dopo).
Sull’altro versante, Forza Italia – o ciò che ne rimane – è paralizzata dalla necessità di mantenere in piedi le ultima vestigia di potere che le restano (le alleanze in comuni e regioni con la Lega), appesa al miracolo eventuale di una resurrezione – via sentenza della corte europea – di un leader, sempre lo stesso, che dovrebbe indicarle un nuovo percorso, perché quello naturale è ostruito dalla crescita della Lega.
Se una scusante c’è per l’eclissi dell’opposizione è che non è facile confrontarsi con un governo uno e trino, dotato di una schiacciante maggioranza che, di fatto, occupa, grazie al testa-coda ideologico dell’accordo Lega-5Stelle l’intero spazio della politica, da sinistra a destra, passando per il centro. Perché il governo Conte sono in realtà tre governi diversi, che occupano tutte le posizioni possibili. Nella politica e nella società. C’è il governo della borghesia colta, moderata, europea. Il governo dei giovani, del Sud, delle rivendicazioni di poveri e precari. E il governo dei Brambilla, dei piccoli industriali e delle professioni, del Nord, degli ex operai.
Nei governi di coalizione è normale che ci siano obiettivi e sensibilità diverse, a caccia di una intesa. Qui, però, gli obiettivi di Lega e 5Stelle convergono solo sui titoli dei capitoli, non sulle soluzioni. L’insofferenza verso gli immigrati e verso l’Europa è un collante troppo generico. Al momento di declinarlo, Salvini e Di Majo portano ognuno la propria agenda: l’accordo consiste nel sommarle. Craxi e De Mita, ai loro tempi, lo fecero, scardinando il debito pubblico. Oggi, in tempi grami per l’economia, appare una operazione spericolata. Di solito, tuttavia, in questi casi, c’è una sorta di stanza di compensazione, dove si tagliano e si reincollano le diverse istanze. Qui no. Perché nel governo uno e trino, la stanza di compensazione è un terzo governo. Enumerando: il governo Salvini, il governo Di Majo. E il governo Mattarella.
Lo stesso presidente del Consiglio sembra risucchiato all’interno di quella che possiamo definire l’ala istituzionale del governo. Quella che, a ben vedere, è il risultato diretto del lungo braccio di ferro fra il presidente della Repubblica e i leader della coalizione gialloverde, nelle giornate cruciali del varo del governo Conte. Ricordate le parole di Mattarella, quando fece saltare la candidatura di Paolo Savona al Tesoro, il richiamo alla difesa del risparmio, all’ancoraggio europeo, ai trattati che ci legano alla comunità internazionale? Sono le parole a cui sembrano tuttora ispirarsi gli uomini più vicini al Quirinale. Responsabili, moderati, attenti ad evitare o attutire scossoni troppo violenti alla barca. Non si fa fatica a immaginarli allo stesso posto nel governo Gentiloni.
Due poltrone-chiave: Esteri e Tesoro. Si deve a loro se, nei fatti concreti, nonostante appelli ripetuti alla “discontinuità”, il governo italiano si è mosso nel solco della continuità: rottura evitata al summit di Bruxelles, voto favorevole al rinnovo delle sanzioni alla Russia, sono i primi atti di Moavero. Tria, dal canto suo, ripete gli atti di fede nell’euro, nella tenuta dei conti, nel taglio del debito. Le altre indicazioni (niente manovra quest’anno, nessun aumento della spesa corrente, rinvio del pareggio di bilancio) le avrebbe quasi certamente fornite anche il suo predecessore Padoan.
I nodi verranno al pettine in autunno, al momento di definire la manovra finanziaria 2019. Ma ne abbiamo avuto un primo assaggio con lo scontro sul decreto Dignità, che è anche il primo atto legislativo di questo governo. Senza copertura finanziaria, la parte fiscale si è svuotata, facendo mancare alla Lega la contropartita per le sgradite misure di lotta al precariato. E’ probabile che lo schema si ripeta sistematicamente. La flat tax interessa il prospero elettorato della Lega, il reddito di cittadinanza ai semioccupati che hanno votato 5Stelle. Ognuno, non solo non è coinvolto nella battaglia dell’altro, ma ne diffida nel profondo. Improbabile che ci siano i soldi anche solo per l’una o per l’altra. Certo non per tutti e due. Anche l’attacco concentrico alla riforma Fornero delle pensioni non suscita lo stesso entusiasmo nei due partner. Per gli ex operai del Nord che hanno votato Lega, alle spalle una solida storia contributiva, è un’occasione irripetibile. Per i tanti precari e saltuari del Sud un obiettivo, probabilmente, irraggiungibile. Di Majo, infatti, preferisce parlare di pensioni d’oro, da tagliare per finanziare le pensioni minime.
Lo scontro sulle causali nei rinnovi dei contratti a tempo determinato, insomma, è solo un antipasto.
Maurizio Ricci