Cosa vorremmo dalla grande assemblea mondiale di Glasgow sull’ambiente? I giornali ce lo ricordano ogni giorno: un ribaltamento dei modi di produrre e consumare che tagli fuori i combustibili fossili e gli altri strumenti con cui l’uomo, da quasi tre secoli, sta riscaldando il pianeta, portandolo verso la catastrofe. In altre parole, una rivoluzione. Una prospettiva anche entusiasmante, a patto di ricordare che le rivoluzioni non sono mai gratis e, quando lo sembrano, di solito, sono una truffa.
Questo non significa che non valga la pena di pagare il prezzo. Provate a chiedere agli abitanti di Catania, appena usciti dall’incubo di Apollo, un “medicane” (così gli esperti chiamano gli uragani del Mediterraneo) come non si vedeva da decenni. Le temperature più alte aumentano l’evaporazione e, quando piove, piove di più. Il legame fra Apollo e il riscaldamento globale, insomma, è facile da trovare e i catanesi sarebbero probabilmente pronti a metter mano al portafoglio per evitare il ritorno di Apollo. La loro, del resto, è solo una piccola porzione di un dramma molto più vasto. Già oggi, ad esempio, nel mondo, 110 milioni di persone si ritrovano a vivere sotto il livello di marea e, presto, se gli oceani continuano a salire, ci finiranno anche zone ad altissima densità abitativa, come Giakarta, Bangkok, Canton e Hong Kong. Ma Catania è significativa, perché questo 2021 è l’anno in cui le catastrofi del clima si sono concentrate sul Nord temperato, che, di fatto, non le conosceva. Su 3500 morti causati quest’anno da avversità climatiche, 3 mila sono localizzate nel ricco Occidente, si tratti di morti paradossalmente di freddo nel caldo Texas, di caldo nel fresco Canada, sotto l’alluvione nell’ordinata Germania. Ecco perché – anche noi, lontani dai monsoni e dai tropici – siamo oggi più consapevoli del disastro climatico e per questo guardiamo a Glasgow.
Anche perché il futuro è peggio per tutti. C’è un equilibrio epocale che sta per saltare sotto l’avanzata del caldo. Chi fa i conti ha scoperto che, negli ultimi 6 mila anni, la grande maggioranza dell’umanità, insieme alle sue bestie e ai suoi raccolti, ha vissuto concentrata in zone climatiche con una temperatura media annuale fra gli 11 e i 15 gradi: dove, insomma non si va molto sotto lo zero o sopra i 30 gradi. Ma nel giro di 50 anni, più di 3 miliardi di persone, un terzo dell’umanità (se non emigrano) si troverà a vivere come oggi capiterebbe a chi decidesse di stare nel cuore del Sahara: con una temperatura media annuale di 29 gradi, che, attualmente, si registra solo sullo 0,8 per cento della superficie terrestre. È uno scivolamento progressivo, sempre più veloce: ogni grado di riscaldamento in più (dall’era preindustriale abbiamo registrato, finora, 1,2 gradi in più nella temperatura media annuale del pianeta) corrisponde ad un miliardo di persone che escono dalla zona di comfort climatico, dove finora si è cullata l’umanità.
Il tempo stringe e tutti vorremmo che, a Glasgow, i politici fossero unanimemente consapevoli che occorre arrestarsi prima del precipizio. Dalla “pasionaria” Greta Thurnberg in giù, però, deve anche essere chiaro che non ci sono biglietti omaggio. Un errore così è già stato compiuto con la globalizzazione. Il mondo nel suo complesso, si diceva, ne trarrà beneficio. Per alcuni (le classi lavoratrici d’Occidente) ci sarà un passaggio a perdere, ma transitorio e, presto, si risistemeranno. Quello che mancava, in questa analisi, è la percezione che il processo non sarebbe stato automatico e che il tempo necessario per la transizione era una incognita con un costo pesante. Il risultato è stato la rivolta contro la globalizzazione, che ha avuto effetti sconvolgenti sugli equilibri politici di quasi tutti i paesi.
Non si può rischiare una rivolta anche contro la politica per il clima. Ma, anche qui, bisogna avere percezione della transizione. Per evitare di bollire fra trent’anni, bisogna fare sacrifici subito e questo non deve avvenire a sorpresa o senza una rete di protezione per chi, quei sacrifici, non può permetterseli.
L’attuale boom delle bollette è legato a circostanze imprevedibili ed eccezionali, ma, in attesa che ci siano, in un futuro non troppo lontano, abbastanza rinnovabili a prezzi stracciati, l’energia, in questi anni, è destinata comunque a costare di più. Le centrali elettriche e, in generale, le industrie inquinanti, in base alle regole europee, devono pagare per emettere una tonnellata di anidride carbonica e il prezzo di questi diritti di emissione è schizzato verso l’alto, triplicando nel giro di pochi mesi. È esattamente quello che prevede il meccanismo: di fronte al costo crescente, le industrie inquinanti sono spinte ad attrezzarsi per emettere (e pagare) di meno.
La tempistica, però, è decisiva. La riconversione tecnologica produrrà nuovi e, probabilmente, migliori posti di lavoro. Nell’immediato, però, ne cancella un numero corrispondente. Contemporaneamente, la riconversione comporta una rapida obsolescenza di capitale: edifici, macchinari, infrastrutture, non immediatamente rimpiazzati da quelli ecologicamente rinnovati. Fra lavoratori temporaneamente accantonati e macchinari ancora da rimpiazzare si rischia quello che gli economisti chiamano “shock dell’offerta”, che può comportare una (sempre temporanea) caduta di produzione.
Lavoratori a spasso, capitali inutilizzabili, aumento dei costi (per via delle regole sulle emissioni) che si ripercuote sui prezzi. Tutto temporaneo, inevitabile, necessario, ma non si può far finta che questo shock non ci sia. Tanto più che, per evitare che tutto questo ricaschi sugli strati di popolazione più svantaggiati, occorre pensare a forme di sussidio, come quelli in atto in questi mesi per le bollette elettriche o del gas. È un peso nuovo per i bilanci pubblici, contemporaneamente sollecitati ad intervenire per incentivare gli investimenti nella nuova ecologia. Il conto lo vedremo sui debiti pubblici, già gravati dalle misure anti-Covid.
Ecco lo scenario completamente nuovo che si trovano ad affrontare l’Europa, i governi nazionali e la gente qualsiasi. C’è un trade off implicito, direbbero gli economisti, un do ut des, direbbe chi si ricorda il latino, fra salvezza climatica e impegno immediato. Il processo, però, va riconosciuto e governato. Cominciando con il renderlo trasparente e comprensibile: basta con gli annunci generici sul taglio delle emissioni del 55 per cento entro il 2030. Per renderlo credibile e stimolare le imprese ad adeguarsi, bisogna avere il coraggio di cadenzarlo: 10 per cento entro il 2024, 20 per cento entro il 2026 eccetera. Altrimenti si parte al buio.
Maurizio Ricci