Una dietro l’altra, le banche centrali sparano aumenti dei tassi di interesse o li minacciano per un tempo indefinito, con l’esplicito obiettivo di frenare una spirale prezzi-salari che, come negli anni ‘70, rinfocoli l’inflazione. In realtà, ha dovuto riconoscere in queste ore – ancora una volta – Christine Lagarde “attualmente, non vediamo segni di una spirale prezzi-salari”. “Tuttavia – ha subito aggiunto – più a lungo l’inflazione resta alta, più i rischi salgono”. Quello a cui stiamo assistendo, insomma, è un fuoco di sbarramento preventivo, volto ad assicurare una moderazione salariale, messa in pericolo dalle perdite di potere d’acquisto maturate negli ultimi due anni.
Non è, però, quello che dicono i dati. Quello che va moderato non sono i salari, ma i profitti delle aziende, che continuano, ancora oggi, a cavalcare l’onda lunga della pandemia e, poi, della crisi dell’energia, per aumentare i prezzi più di quanto giustifichino gli aumenti dei costi, in una spregiudicata caccia ad ingrassare i bilanci , sotto la copertura dell’emergenza. Tuttavia, non sono necessarie spedizioni punitive per riportare, in tempi ragionevoli, l’inflazione all’obiettivo del 2 per cento. Nessuna “tosatura” dei bilanci: basta che le aziende si accontentino – dice il Fmi, il Fondo monetario internazionale – di rinunciare alla grande bonanza di questi ultimi anni e tornino ai ritmi di guadagni pre-pandemia.
Gli indizi della grande corsa dei profitti e del grande gelo dei salari erano già visibili da qualche tempo. Ora, gli economisti del Fmi li certificano nel dettaglio, accertandone l’ulteriore accelerazione ancora nel primo trimestre di quest’anno. Complessivamente, dice lo studio, i profitti hanno spinto l’inflazione anche più di quanto abbiano fatto i costi delle importazioni (la famosa crisi dell’energia). Dall’inizio del 2022, i prezzi delle importazioni hanno pesato per il 40 per cento sul boom dell’inflazione. I profitti per il 45 per cento. I salari non hanno tenuto il passo.
Lo studio scompone la corsa dell’inflazione europea, trimestre per trimestre. A inizio 2022, su un indice dei prezzi che sale poco più del 4 per cento, i profitti pesano per 1,75 punti. I salari per 0,82. Il resto alle importazioni. Nel secondo trimestre, l’inflazione al 6 per cento è fatta di 2,26 punti di profitti e di 1,08 punti di salari. Nel terzo, l’inflazione è al 7 per cento: di quei 7 punti, 2,62 vanno ricondotti ai profitti, 1,34 ai salari. A fine 2022, l’inflazione tocca il picco all’8 per cento: di quegli 8, 3,72 vanno attribuiti alla crescita dei profitti, 1,9 a quella dei salari, quanto manca allo shock esterno. Il 2023 non è diverso: nel primo trimestre, inflazione al 7 per cento, con 3,56 punti attribuibili ai profitti e 2,24 ai salari.
Chiarito che la spirale a cui abbiamo assistito finora non è quella dei salari che rincorrono i prezzi, ma quella dei prezzi che rincorrono i profitti, il conto dei vincitori e dei vinti, secondo il Fmi, non lascia dubbi: nel primo trimestre 2023, i profitti risultano attraverso tutte le crisi – lockdown e guerra in Ucraina compresi – più alti dell’1 per cento, rispetto al periodo pre-pandemia. Mentre i salari sono del 2 per cento sotto, in confronto al pre-Covid.
Nei calcoli del Fmi, tuttavia, non occorre che le aziende si sottopongano a ricette lacrime e sangue per riportare sotto controllo l’inflazione. Se i salari, nei prossimi due anni, crescessero del 4,5 per cento (ovvero, appena sotto il ritmo registrato nel primo trimestre di quest’anno), anche se la produttività restasse a zero, basterebbe che le aziende accettassero di tornare al livello di profitti pre-pandemia per assorbire l’aumento del costo del lavoro e assicurare la discesa dell’inflazione al 2 per cento, entro metà 2025.
I margini, tuttavia, secondo il Fmi, sono stretti. Se i sindacati puntassero a recuperare il salario reale perduto dal 2019 già entro il 2024, quindi con aumenti in busta paga del 5,5 per cento, la quota dei profitti dovrebbe scendere drasticamente e la “tosatura” dovrebbe riportarli – per assicurare la discesa dell’inflazione al 2 per cento, al livello più basso da metà anni ‘90.
Ecco perché, il continuo ululare “al lupo, al lupo” delle banche centrali sull’inflazione tignosa e indomabile rischia di attizzare le aspettative, allontanando lavoratori e imprese dalle scelte più ragionevoli: un recupero più lento, ma più sicuro (perché l’inflazione scende) del salario reale, per i primi; un ritorno alla normalità di profitti più sobri, dopo la sbornia post-pandemia, per le seconde.
Maurizio Ricci