Abbiamo parlato molto di globalizzazione, ma ne vediamo sempre meno. L’Italia è uno dei paesi meno globalizzati d’Europa. Anche l’altra grande malata del continente -la Francia- per certi versi ci sopravanza nettamente. E il vero rivale e termine di confronto -la Spagna- ci straccia, quando si va a fare la conta di chi crede nel paese.
Dopo tanta retorica sull’Italia seconda culla della manifattura europea (dopo la Germania) e sulle prodezze commerciali dei Brambilla e dei loro epigoni, pensavamo di essere un paese al centro di un vortice di flussi di merci, in entrata e in uscita. Ma non è vero. In generale, i paesi-vortice sono i più piccoli, anche se non solo quelli minuscoli, come la Lettonia e la Slovacchia. Paesi medi, come il Belgio, l’Olanda, l’Irlanda, hanno esportazioni, per un verso, importazioni, per l’altro, intorno all’80 per cento del prodotto interno lordo. Per la possente macchina industriale tedesca, le esportazioni valgono il 51 per cento del Pil e le importazioni il 45 per cento. L’Italia è in coda agli altri grandi paesi d’Europa che non sonola Germania, con import ed export che valgono, ognuno, circa un terzo del Pil. Per l’Italia, un po’ meno: l’export equivale al 30 per cento del prodotto interno lordo, l’import al 28 per cento. Più o meno comela Francia, che sta, rispettivamente, al 27 e al 29 per cento.
Ma lo scollamento preoccupante è altrove, negli investimenti. La asfittica Francia ha investito nel mondo l’equivalente del 60 per cento della sua ricchezza nazionale.La Gran Bretagnail 70 per cento. I tedeschi il 44 per cento. Gli spagnoli anche di più: il 47 per cento. E noi? All’estero abbiamo investimenti (diretti, non in titoli o depositi) per l’equivalente del 26 per cento del Pil: la nostra impronta nel mondo è leggera, più o meno, quanto quella dell’Ungheria, della Slovenia, dell’Estonia e di Cipro. A quanto pare, le imprese italiane hanno delocalizzato in massa, ma in miniatura.
Non è questo, tuttavia, il buco nero. Se, della globalizzazione, vediamo per lo più gli aspetti negativi è perché sembra averci scavalcato. A prima vista, non si direbbe. Le lavatrici dell’Indesit nelle mani degli americani sono solo l’ultimo episodio. Gran parte del lusso italiano, a cominciare da Prada, è emigrato in mani straniere. E così anche marchi-bandiera, come Parmalat o Ducati, finiti, rispettivamente, ai francesi e ai tedeschi. Sembra, insomma, una megasvendita e una colonizzazione dell’economia italiana, ma è una illusione ottica.
La verità è che gli stranieri, da noi, non ci vengono. Nessun paese europeo ha una quota di investimenti diretti esteri (fabbriche, uffici, centri commerciali, alberghi, società) più bassa della nostra, rispetto al Pil. O, meglio, uno c’è: è la Grecia. I capitali investiti direttamente dal resto del mondo in Italia equivalgono solo al 18 per cento del nostro prodotto interno lordo.La Germaniaè al 29 per cento. Gli altri sono lontanissimi. Lo stock di capitale investito dagli stranieri in Gran Bretagna vale il 60 per cento del suo prodotto interno lordo.La Spagna è al 46 per cento. La Franciaè al 38 per cento.
Di Maurizio Ricci