L’inflazione, finalmente, scende. Più 0,3 per cento a maggio sul mese precedente, contro il più 0,4 di aprile. E più 7,6 per cento negli ultimi 12 mesi, in discesa dal più 8,2 per cento registrato un mese prima. Siamo ben lontani dal più 11,8 per cento di ottobre. A dare solidità al calo, la contemporanea traiettoria europea: dal 7 al 6,1 per cento il trend annuale a maggio, rispetto ad aprile, la lettura più bassa dall’invasione dell’Ucraina e, anche qui, ben lontana dal massimo del 10,6 per cento di ottobre. L’Italia viaggia ancora un poco al di sopra della media europea, ma troppi i legami con il resto dell’eurozona perché il percorso possa divergere.
Insomma, come l’ala più ottimista degli economisti aveva previsto, l’inflazione ha raggiunto il picco e sta rapidamente scendendo, una volta ridimensionato il prezzo dell’energia, verso livelli più accettabili. Il punto è che questo sta avvenendo al di fuori dei drastici interventi della Bce o, meglio, prima che questi possano aver avuto effetti sull’economia. Ci vogliono, mediamente, 18 mesi perché gli aumenti dei tassi arrivino a spingere l’attività economica in un senso o nell’altro. Ma la stretta – “mai così intensa e così in fretta” riconosce Christine Lagarde – che ha portato i tassi da sotto zero a oltre il 3 per cento è iniziata meno di un anno fa e, finora, è arrivata solo a frenare il credito (anche pesantemente, dicono i primi sondaggi della stessa Bce), ma non è filtrata a imprese e famiglie. Infatti, dice sempre la Lagarde, “sappiamo che c’è ancora molta stretta in dirittura d’arrivo”. Nonostante questo carico già precostituito, la Bce si prepara, tuttavia, secondo le anticipazioni, ad aumentare ancora i tassi la prossima settimana e, poi, a luglio.
Davvero ce n’è bisogno o l’inflazione, a questo punto, rientrerebbe nei ranghi da sola? I dubbi emergono anche dalle dichiarazioni, peraltro felpate, del governatore della Banca d’Italia, Vincenzo Visco e ruotano intorno alla diversa lettura dell’inflazione attuale. Se l’inflazione attuale scaturisce dal boom dei prezzi dell’energia, c’è poco che la Bce possa fare con i tassi per influenzare quei prezzi e, comunque, l’inflazione rientrerà, quando quei prezzi scenderanno (che è quello che sembra avvenire). La Bce può invece frenare, con i tassi, una inflazione legata ad un eccesso di domanda, scoraggiando imprese e famiglie: questa sembra la lettura a Francoforte.
Il problema è che l’eccesso di domanda non c’è da nessuna parte. I consumi degli europei sono ancora l’1 per cento sotto il quarto trimestre del 2019, l’ultimo prima della pandemia. Negli Usa, per confronto, sono l’8,5 per cento sopra il livello pre-Covid ed è infatti corretto indicare i rischi di surriscaldamento per l’economia americana. Certo non per quella europea, dove i consumi languono, prima ancora che la stretta operata in questi mesi dalla Bce abbia i suoi effetti.
L’ipersensibilità di buona parte del vertice di Francoforte (i “falchi del Nord”, per dirla con la formula abituale) verso i dati mensili dell’inflazione viene – oltre che dalla tentazione di fare bella figura con i preconcetti delle opinioni pubbliche di casa propria – dal timore che l’inflazione, anche se da costi, finora registrata, abbia determinato in famiglie e imprese un’aspettativa di inflazione crescente, ormai sganciata dalla traiettoria effettiva dei prezzi dell’energia, che si riflette in una rinnovata spinta salariale. Ovvero, che l’inflazione sia ormai pronta ad autoalimentarsi.
Ma, anche qui, i dati non suffragano la posizione di Francorte. La recente indagine della Commissione europea sulle famiglie, mostra la netta percezione di una inflazione record negli ultimi 12 mesi, ma la sicura convinzione di un calo vistoso nei prossimi 12. Le aspettative, dunque, non ci sono. E neanche i salari. Ricordiamo che un aumento medio annuo del 3 per cento (il 2 per cento di inflazione accettata, più un 1 per cento di produttività) viene considerato normale anche dagli economisti della Bce. E, al netto di diverse una tantum, gli aumenti salariali riconosciuti in questi mesi, proiettati sui prossimi due-tre anni non si discostano in misura troppo vistosa da questo 3 per cento, anche nei paesi dove, diversamente dall’Italia, le trattative contrattuali sono state numerose.
Per molti aspetti, dunque, sembra un po’ una caccia ai fantasmi degli anni ‘70. Ma la realtà dell’economia di oggi è, probabilmente, diversa e non si subordina agli stessi cliché. Lo possiamo vedere nell’esperienza americana, diversa per molti aspetti, ma importante sotto questa profilo, visto che l’economia Usa sì è surriscaldata e sottoposta ad un eccesso di domanda, al contrario di quella europea. Ma i salari non c’entrano. Due economisti assai illustri, Ben Bernanke e Olivier Blanchard (uno ex presidente della Fed, l’altro ex capo economista del Fmi) concludono che, negli Usa, solo una piccola parte degli aumenti dei prezzi oltre il 2 per cento è dovuta ai salari, nonostante una disoccupazione bassissima. I motori sono, piuttosto, gli aumenti dell’energia e le strozzature nelle forniture. A conclusioni analoghe arriva uno studio della Fed di San Francisco: su 4,9 punti in più di inflazione registrata ad aprile negli Usa, solo 0,1 punti possono essere attribuiti alle spinte salariali. In generale, “la recente crescita del costo del lavoro è una misura scarsamente affidabile dei rischi di inflazione”.
La Bce deve proiettare una immagine di intransigente lotta all’inflazione per tutelare la propria credibilità, Ma Christine Lagarde deve anche preoccuparsi di non scatenare una reazione politica per aver determinato una recessione quando non ce n’era più bisogno.
Maurizio Ricci