Moda, auto, mobili, elettrodomestici. La ripresa italiana, quando ci sarà, non presenterà sorprese e questa non è necessariamente una buona notizia. Anche nel terribile 2014 appena concluso, a tirare sono stati i settori di sempre, con moda ed elettrodomestici capaci di crescere, nel ristagno complessivo dell’economia, del 3-4 per cento e auto e moto, rimbalzate del 10 per cento, in termini di fatturato, rispetto al 2013. Insomma, il sistema Italia non sembra capace di aggiornare il proprio modello di sviluppo, allargando la propria vitalità ad altri nuovi promettenti territori, come pure hanno dimostrato di saper fare altri paesi, come la Svezia. E, tuttavia, dimostra anche di non affondare. E’, ancora una volta, la storia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto.
Va in direzione del bicchiere mezzo pieno la resistenza alla crisi dei settori storici dell’industria italiana. E anche la loro capacità di svelare, per l’ennesima volta, quanto c’è di strumentale – al servizio della politica e dell’ideologia – nella eterna polemica (italiana e internazionale) sulla competitività della nostra industria, vista soltanto attraverso la lente del costo del lavoro. A paragone degli altri paesi, il costo del lavoro italiano ha continuato a crescere, nonostante la recessione, quando altrove precipitava. Un disastro, allora? Non si direbbe. L’ultimo rapporto di Prometeia sottolinea che, fra gennaio e agosto 2014, gli scambi mondiali sono diminuiti. Ma l’Italia ha battuto la tendenza, aumentando, invece, le esportazioni di manufatti dell’1,8 per cento, in barba ai dati sul costo del lavoro. Dopo l’estate, l’export ha accelerato: nei primi dieci mesi del 2014, le esportazioni risultano cresciute del 2,4 per cento.
L’impermeabilità dello zoccolo duro dell’industria italiana ai venti contrari del commercio mondiale, della recessione interna, del costo del lavoro ha però un rovescio della medaglia. Per gli stessi motivi, i fattori positivi che si annunciano per il 2015 avranno un’influenza limitata. Se i costi contano relativamente, peserà anche relativamente il vantaggio dell’euro debole di questi mesi e, con ogni probabilità, dei prossimi. Del resto, meno del 30 per cento delle esportazioni italiane è diretto a paesi (Usa, Asia e Medio Oriente) le cui valute si sono apprezzate rispetto all’euro. E’ il bicchiere mezzo vuoto. E’ inutile, infatti, aspettarsi resurrezioni miracolistiche dell’economia italiana, grazie all’euro debole, se a marciare sono soltanto i settori forti di sempre. Perché il miracolo avvenga, gli effetti benefici dovrebbero allargarsi al resto dell’economia, tuttora in stato catatonico. E severamente decimata dalla crisi.
Un’altra ricerca – questa volta di Nomisma – segnala che la produzione potenziale manifatturiera (cioè quella ottenibile facendo marciare gli impianti a pieno regime) è crollata del 18 per cento fra il 2007 e il 2014, in gran parte dopo il 2010. E’ diminuito il numero delle imprese, in particolare le microaziende. A prima vista, un dato positivo, visto che maggiori dimensioni significano anche, abitualmente, maggiore efficienza. Ma non è così: la riduzione del numero di imprese riguarda tutte le dimensioni e, paradossalmente, l’incidenza della microimpresa è aumentata, non diminuita: l’azienda media, oggi, ha 9,2 addetti, invece di 9,6. Contemporaneamente, la crisi ha intaccato anche la capacità produttiva delle imprese rimaste in piedi. La recessione, in altre parole, conclude Nomisma, non si è limitata a “ripulire” il mondo delle imprese delle unità meno efficienti, ma ha anche colpito il tessuto sano.
E’ il bicchiere mezzo vuoto che finisce per catturare l’attenzione. Perché significa che l’economia deve ripartire con aziende che già zoppicano. E lo zoccolo duro ha già dimostrato, negli ultimi vent’anni, di non essere in grado, da solo, di tirare la volata al paese.
Maurizio Ricci