È il miraggio che insegue Matteo Renzi e, forse, anche Mara Carfagna: la conquista del centro dello schieramento politico. Il problema è che quel centro assomiglia all’isola che non c’è: che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa. Non è una sorpresa: in quel buco nero, al centro dello schieramento politico, si è volatilizzata, negli ultimi dieci anni, da Mario Monti in poi, buona parte della classe dirigente italiana. Non è neanche un fenomeno solo italiano. Anzi, è globale. Al centro dello schieramento politico spagnolo si è appena inabissato quello che appariva un assoluto cavallo di razza, i Ciudadanos di Albert Rivera. In Gran Bretagna, nello scontro fra i Brexitissimi di Boris Johnson e i vecchi socialisti di Jeremy Corbyn, si sono estinti gli One Nation Tories, i conservatori moderati. In Polonia e in Ungheria, questo centro è stato inglobato dalla destra, come il sovranista Salvini sta facendo in Italia. Dove resiste, traballa, ad esempio in Germania, dove la Cdu boccheggia, incapace di un rilancio per il dopo Merkel. Oppure, è il risultato di una sorta di terno al lotto, come in Francia, dove Macron si è fatto largo, grazie all’inatteso coincidere della crisi dei socialisti e di quella dei gollisti. Nell’altro troncone di democrazia occidentale, oltre Atlantico, è anche peggio. Nell’America trumpiana, l’albero dei repubblicani moderati, convinti che i grandi paesi si governano con accordi e compromessi, si è disseccato da tempo, in nome del principio che chi vince prende tutto, a cominciare dai giudici della Corte Suprema.
Il centro è stato il grande protagonista della seconda metà del secolo scorso. Era al centro che si vincevano le elezioni. Gli storici, forse, diranno che il primo ad intaccare il principio è stato Dick Cheney che, nel 2004, convinse Bush junior a correre, irreggimentando i suoi, piuttosto che corteggiando i moderati. I politologi potranno, peraltro, osservare che gli aspiranti partiti di centro sembrano serialmente incapaci di offrire una prospettiva di stabilità e di gestione competente, le due carte vincenti del centro della seconda metà del ‘900. L’ottica, però, è forse sbagliata. Se il centro è, politicamente, diventato un territorio deserto e inospitale, una palude mortifera, forse, semplicemente, un non-luogo, è per carenza di offerta? Mancano i leader, i partiti, i programmi? O, piuttosto, la crisi è di domanda? Ovvero: semplicemente, non ci sono più gli elettori di centro?
I sociologi possono indicare due spie, che lampeggiano dalla parte della crisi di domanda. La prima segnala che l’elettorato di centro si sgonfia, perché si sgonfiano le classi medie. Sul lungo periodo, la rivoluzione digitale ha svuotato quelli che erano i tradizionali canali di lavoro e di sicurezza della classe media. Nell’immediato, la crisi del 2008 ne ha compresso il numero e l’ha spaccata in due: una classe media vincente e che punta in alto, un’altra perdente, trascinata verso standard e stili di vita che, una volta, avremmo definito “popolari”. La seconda spia indica, invece, i valori. Sempre di più, in Occidente, le scelte politiche individuali sembrano essere dettate all’insegna non degli interessi economici, ma dell’identità – culturale, anzitutto – come si manifesta nel dibattito sull’immigrazione.
Ricordate il famoso “è l’economia, stupido”, la bussola che portò Bill Clinton alla vittoria nel 1992? “Non è l’economia, stupido” ha titolato in questi giorni un grande giornale americano: lo spartiacque che divide l’elettorato attraversa classi sociali e di reddito, in nome, non degli interessi, ma del rapporto con l’identità e l’immigrazione. E’ vero nell’America di Trump, nell’Inghilterra della Brexit, nella Francia della Le Pen, nella Germania dell’Afd, l’Ungheria di Orban e l’Italia di Salvini. E l’identità è un terreno in cui dominano i colori forti e sembra mancare il grigio, la bandiera del centro. Ma, al di là dei precari tentativi di analisi di una realtà in subbuglio, conta il risultato. La politica ha dimenticato il centro, anche perché non è più se stessa.
Qualche anno fa, fra giornalisti, ci si prendeva in giro, notando che il giornalismo politico andava mimando sempre più, nel linguaggio e nella narrazione, il giornalismo sportivo: contropiede, ripartenza, autogol, dribblig, imparabile. La realtà ha superato lo scherzo: la politica è diventata tifo. Non si vota a sinistra. Si tifa a sinistra. E non si vota a destra. Si tifa a destra. Può darsi che su questo abbiano inciso il declino della stampa tradizionale e della sua funzione storica di filtro, di verifica e di bilanciamento e la contemporanea ascesa di Internet e dei social media, con la possibilità di creare un filo diretto fra il singolo e la comunicazione pubblica. In ogni caso, sembra essersi spenta ogni possibilità di un terreno comune di dialogo, di condivisione di valori e principi che stiano al di sopra della propria parte politica.
Gli esempi sono un diluvio. Prendiamo il più chiaro, perché consente un confronto con il passato: l’impeachment del presidente americano. Quasi cinquant’anni fa, Nixon fu costretto a dimettersi, perché, non tanto parte del partito repubblicano, quanto una grossa fetta dell’elettorato giudicava che il presidente avesse tradito principi di trasparenza, di onestà, di correttezza che lo stesso elettorato giudicava più importanti del prevalere del proprio partito. E’ molto dubbio che questo avvenga oggi con Trump. E’ invece probabile che il suo elettorato, messo di fronte ad un ipotetico video in cui lo si vede picchiare un ragazzino, concluda che è stato il ragazzino a provocarlo. E viceversa, probabilmente, se ci fosse di mezzo un democratico.
Le vicende dell’impeachment sono molto meno importanti del fenomeno che segnalano: la gestazione di una drammatica crisi della democrazia. Perché un universo di valori, ideali, principi, codici morali condivisi, superiori all’interesse di parte è la precondizione essenziale della democrazia occidentale che abbiamo conosciuto. Tradizionalmente, il centro, proprio perché in grado di spostarsi da una parte all’altra dello schieramento politico, era, ancor più che il custode, il garante di quei valori. Se un politico non è più tenuto a render conto al paese, all’elettorato, al suo elettorato del rispetto di principi e valori che sono di tutti (maggioranze e minoranze), ma soltanto della capacità di superare l’avversario, la democrazia si riduce al più uno. Che è un’altra cosa. E, allora, la crisi non è del centro, ma della democrazia.
Maurizio Ricci