Un secolo e mezzo fa, subito dopo l’unità d’Italia, nel Sud – che, al contrario di Piemonte e Lombardia non la conosceva – la chiamavano “tassa sulla morte”. Il tempo non ha reso la tassa di successione più simpatica. In teoria, l’effetto redistributivo (togliere ai più ricchi) è vistoso, ma il gettito è troppo magro per essere apprezzabile. È soprattutto, insomma, una tassa per principio. O, se preferite, una patrimoniale light. Severa in Francia, dove l’area no-tax è solo sui primi 100 mila euro di eredità e l’aliquota va da un minimo del 5 per cento ad un massimo del 45 per cento, già su un patrimonio di 1,8 milioni di euro. Assai meno in Germania, dove esente è il primo mezzo milione e l’aliquota sale dal 7 al 30 per cento (ma su patrimoni di almeno 26 milioni di euro). In Italia è assai più morbida, anche se non quanto si dice. La tassazione è del 4 per cento per patrimoni al di sopra di un milione di euro. Ma, come spesso accade con il fisco italiano, c’è una paratassa che non si vede, ma c’è. Se l’eredità comprende case (il bene per eccellenza degli italiani) si deve pagare comunque un’imposta di registro del 3 per cento, senza nessuna franchigia, si trattasse anche di un box auto.
E’ proprio l’ingombrante questione casa a rendere difficile il decollo della proposta del segretario del Pd, Enrico Letta: tassare progressivamente, fino al 20 per cento, i patrimoni superiori a 5 milioni di euro. E’ un bene, per sua natura, scarsamente liquido. Vendere entro tempi prefissati, per poter soddisfare il fisco, può costringere a vere e proprie svendite: quasi un esproprio. Peraltro, se il parametro di riferimento è un catasto largamente obsoleto, si rischiano clamorose sperequazioni: case di pregio nei centri storici protette dalla franchigia, villette di periferia all’asta giudiziaria.
Eppure, proprio la lente fiscale della successione mette a nudo quanto l’Italia, negli ultimi 30-40 anni, si sia avvitata in una clamorosa spirale di diseguaglianze crescenti, forse semplicemente insostenibili. Una ricerca compiuta da Paolo Acciari, Facundo Alvarado, Salvatore Morelli mostra l’Italia su un percorso di squilibrio sociale parallelo a quello degli Stati Uniti, piuttosto che degli altri paesi europei. Acciari, Alvarado e Morelli si sono basati sulle dichiarazioni di successione, anche aggiornando, per gli immobili, i dati catastali con i valori di mercato. E trovano che l’1 per cento degli italiani più ricchi, circa 500 mila persone (quelli che Letta vorrebbe colpire con la sua proposta sui patrimoni oltre i 5 milioni di euro) fra il 1995 e il 2016, hanno visto aumentare la loro quota della ricchezza nazionale dal 16 al 22 per cento. Ma i 50 mila più ricchi di questi 500 mila, lo 0,1 per cento degli italiani, l’ha raddoppiata: dal 5,5 al 9,3 per cento. E, sulla punta del pinnacolo più alto, i 5 mila straricchi, lo 0,01 per cento degli italiani, l’ha quasi triplicata: dall’1,8 al 5 per cento della ricchezza di tutto il paese. E la ricerca individua un trend allarmante. A livello assoluto, la concentrazione della ricchezza in Italia, non è oggi distante da quella che si registra in Francia o in Germania. Ma la velocità con cui abbiamo raggiunto questo livello è paragonabile solo alla rapidità con cui la società americana è tornata agli squilibri sociali dei suoi anni ’20 e del Grande Gatsby.
Costringere, allora, i fortunati eredi di ricche famiglie a vendere di gran carriera le loro terze o quarte case o i palazzetti del nonno per pagare la tassa di successione? La ricerca di Acciari, Alvarado, Morelli suggerisce che il vero problema di una tassa come quella immaginata dal leader del Pd non è, probabilmente, la facilità di liquidare parte del patrimonio, ma accertarlo.
A esaminare le dichiarazioni di successione, infatti, la retorica sulla casa, ricchezza degli italiani, suona un po’ a vuoto. Il patrimonio immobiliare, come cassaforte quasi esclusiva della ricchezza, non è, infatti, una caratteristica dei ricchi. E’ roba da classi medie: quelle che si collocano al di sopra del 50 per cento più povero, ma al di sotto del 10 per cento più ricco. E gli straricchi? La dinamica accelerata di arricchimento registrata negli ultimi vent’anni da quei 500 mila italiani più fortunati nasce altrove. Non sono passati dal 16 al 22 per cento della ricchezza nazionale comprando una terza, quarta, quinta casa. Hanno investito nella finanza: in Borsa, nei fondi, all’estero. Un patrimonio volatile, occultabile, sfuggente, fluido, infinitamente parcellizzabile. Metterci le mani sopra – all’Agenzia delle entrate lo sanno benissimo, Enrico Letta probabilmente assai meno – non sarà facile.
Maurizio Ricci