di Vincenzo Bavaro, Università di Bari
1. Premessa
Tecnicamente non possiamo ancora parlare di contratto collettivo “separato” così come si disse nel 2003 per il settore metalmeccanico dato che, nel per il terziario, distribuzione e servizi (da ora TDS), Confcommercio, Uiltacs e Filtacs-Cisl hanno sottoscritto soltanto una Intesa di rinnovo del CCNL per gli anni 2007-2010. Nondimeno non si può trascurare l’importanza di un fatto del genere non solo perché è raro che le organizzazioni di categoria delle tre più importanti Confederazioni sindacali italiane non sottoscrivano assieme un rinnovo di Ccnl (v. appunto l’eccezione del 2003 per i metalmeccanici), ma anche – e direi soprattutto – per il momento storico in cui ciò accade guardando sia al quadro politico sia a quello propriamente sindacale.
Riguardo al primo aspetto, va detto che è cronaca di questi giorni la conversione in legge del d. l. n. 112/2008 col quale s’interviene su diversi istituti della organizzazione giuridica del lavoro (per esempio, contratto a tempo determinato, contratto part-time, orario di lavoro); istituti ai quali l’intesa di rinnovo del Ccnl TDS ha dedicato alcune norme di modifica, come dirò in seguito. Riguardo al quadro sindacale, invece, è ben noto che CGIL, CISL e UIL sono impegnate in una difficile trattativa con Confindustria per rinnovare il modello della struttura contrattuale; e non è irrilevante – anche i fini di questo commento – osservare che la posizione unitaria definita dalle Confederazioni sindacali col documento unitario sulle Linee di riforma della struttura della contrattazione ha dedicato il suo terzo capitolo al tema della democrazia e rappresentanza.
Ebbene, questi due aspetti relativi al contesto in cui matura l’Intesa di rinnovo in parola devono essere tenuti presenti così come hanno fatto, invero, le parti firmatarie l’Intesa tant’è che ad entrambi viene fatto esplicito riferimento. Proprio in apertura del CCNL TDS, le parti prendono atto del negoziato confederale in corso e assumono l’impegno di adattare il sistema contrattuale di categoria all’esito della contrattazione interconfederale. Per altro verso, nella dichiarazione a verbale n. 1 relativa alla disciplina dell’apprendistato e nella dichiarazione relativa al capitolo del Welfare contrattuale viene richiamato espressamente il d. l. n. 112/08. In effetti, è utile analizzare l’intesa di rinnovo sotto i fasci di luce provenienti da questi due fattori di contesto perché possono farci cogliere più approfonditamente gli effetti delle modifiche apportato al quadro normativo contrattuale da questo rinnovo.
2. Mercato del lavoro: apprendistato, termine e part-time
Le modifiche apportate alla disciplina del mercato del lavoro non sono particolarmente significative. Se prendiamo in considerazione la disciplina dell’apprendistato, l’Intesa ha stabilito che la percentuale di apprendisti da mantenere in servizio nei 24 mesi precedenti affinché si possa procedere a nuove assunzioni di apprendisti sale dal 70% all’80% (art. 46 ccnl). Si interviene, altresì, in materia di godimento delle ore di permesso, e inseriscono due articoli per consentire l’iscrizione degli apprendisti sia al fondo si assistenza EST sia al fondo di previdenza complementare Fon.Te.
Va segnalata anche la modifica apportata all’art. 50, comma 1, lett. e) del Ccnl TDS sicché le parti hanno cancellato il divieto di adibire l’apprendista a lavori di manovalanza e di produzione in serie. Se rapportiamo questa modifica a quella apportata dall’art. 23, d.l. n. 112/08, secondo la quale è consentito impartire la formazione all’apprendista esclusivamente all’interno dell’azienda, secondo profili formativi stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali, appare evidente che i due interventi sembrano marciare nella stessa direzione, o quantomeno siano omogenei. Infatti, può essere logico che apprendisti manovali o addetti a produzione in serie non siano necessariamente impegnati in decine di ore di formazione teorica presso enti esterni all’azienda. Letta così, siamo dinanzi ad una scelta strategica complessiva che fa dell’apprendistato un contratto destinato ad acquisire ogni tipo di professionalità, anche quelle a più basso contenuto formativo, senza neanche vincoli in ordine a formazione di tipo teorico effettuata all’esterno.
Un discorso analogo vale per il contratto a termine ex d. lgs. n. 368/01. l’Intesa di rinnovo si limita ad inserire l’art. 61bis col quale si stabilisce che «in caso di successione di contratti a tempo determinato con il medesimo lavoratore per le stesse mansioni, non si applica la disciplina del periodo di prova di cui all’art. 103» del ccnl. La norma a prima vista appare come un miglioramento nelle condizioni normative poiché riconosce che la funzione del periodo di prova (cioè valutare inizialmente l’idoneità del lavoratore ad adempiere esattamente la prestazione di lavoro) non è reiterabile quando la valutazione dell’idoneità professionale riguarda il medesimo lavoratore, peraltro adibito ad una stessa mansione.
Sennonché proprio questa specifica circostanza induce a qualche perplessità riferita alla natura temporanea del contratto a tempo determinato. In questa nuova norma contrattuale sembra essere stato inconsciamente introiettato che un medesimo lavoratore possa essere assunto a termine alle stesse mansioni per più volte. Se a ciò aggiungiamo che l’art. 21 del d.l. n. 112/08 ha stabilito che le assunzioni a termine possono essere effettuate «anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro», è giustificato il timore che la reiterazione di successivi contratti a termine – seppur col limite dei 36 mesi complessivi di attività, peraltro derogabili – possa essere considerato del tutto fisiologico nella disciplina giuridica.
Anche qui: è comprensibile governare i processi di fatto e, quindi, migliorare le condizioni di quei lavoratori assunti reiteratamente con contratti a termine. Resta il fatto, però, che il canone interpretativo della temporaneità della causale d’assunzione deve essere tenuto ben presente (com’è opinione consolidata della giurisprudenza). L’intesa di rinnovo non offre nessun significativo contributo in questa direzione.
Nessuna variazione significativa si deve rilevare in materia di part-time. L’intesa collettiva ha solo diversificato la durata ridotta dei contratti a tempo parziale in base alla dimensione aziendale (cioè se superiore o inferiore a 30 dipendenti).
3. Rapporto di lavoro: tempi di lavoro
Ben altro tenore si può cogliere nelle modifiche relative alla disciplina dei tempi di lavoro.
A fronte di un orario normale di lavoro effettivo pari a 40 ore settimanali (con le eccezioni previste dall’art. 115 ccnl) che viene confermato, l’art. 115bis, introdotto dall’intesa di rinnovo, modifica la durata del periodo di riferimento per il calcolo multiperiodale dell’orario settimanale, sia riferito a quello normale sia a quello massimo (rispettivamente ex art. 3 e 4 del d.lgs. n. 66/03) portandolo a 6 mesi per entrambi, e affidando alla contrattazione collettiva di secondo livello la facoltà di ampliarlo fino a 12 mesi, purché «a fronte di ragioni di carattere obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro».
Com’è noto, non è una novità nel panorama della contrattazione collettiva. È interessante notare, però, che tale determinazione del periodo di calcolo dell’orario normale non ha coinciso con una riduzione dell’orario normale settimanale, contrariamente a qualche interpretazione sostenuta in dottrina secondo la quale l’art. 3 del d. lgs. n. 66/03 richiederebbe una riduzione dell’orario normale settimanale per poter adottare il modulo multiperiodale. In ogni caso, anche questo rinnovo conferma la tendenza della contrattazione collettiva ad allungare sino a 12 mesi la base temporale di calcolo dell’orario di lavoro, sia normale sia massimo.
Ci sono alcune questioni da porre. La prima riguarda la compatibilità fra questa disposizione e l’art. 120 ccnl che prevede già una disciplina della «flessibilità dell’orario». Il Ccnl TDS, infatti, prevede già la possibilità di «far fronte alle variazioni dell’intensità lavorativa dell’azienda» mediante «con il superamento dell’orario contrattuale in particolari periodi dell’anno» ponendo, però, «il limite di 44 ore settimanali, per un massimo di 16 settimane»; nel secondo livello di contrattazione, inoltre, si possono aumentare entrambi i limiti portando il tetto a 48 ore e il periodo a 24 settimane. L’art. 115bis potrebbe entrare in conflitto con l’art. 120, a meno che la novella contrattuale non vada interpretata soltanto per la determinazione del periodo di calcolo, lasciando in vigore i limiti massimi dell’orario normale (cioè 44 e 48 ore di orario normale).
Resterebbe aperto, in ogni caso, un secondo problema: il ccnl non stabilisce alcun limite massima complessivo alla durata settimanale ex art. 4, d. lgs. n. 66/03 (né alla durata giornaliera, come dirò appresso) del limite massimo inderogabile e complessivo. Il problema può apparire ancor più evidente se si tiene presente che l’art. 131 ccnl è stato modificato aumentando il tetto delle ore di straordinario annuale esigibile, passando da 200 a 250 ore, senza aver posto particolari vincoli sul piano delle modalità e condizioni per le quali è possibile ricorrere allo straordinario.
Sempre in tema di orari, si segnala l’introduzione di una specifica disposizione contrattuale relativa al lavoro domenicale. Si stabilisce che il lavoro domenicale non è più condizione eccezionale dell’organizzazione del lavoro ma fisiologica, assoggettata soltanto al calendario delle aperture previsto dalle disposizioni di legge e affidata alla regolazione della contrattazione collettiva di secondo livello. Nell’attesa di siffatta regolazione, «le aziende hanno facoltà di organizzare per ciascun lavoratore a tempo pieno che abbia il riposo settimanale normalmente coincidente con la domenica, lo svolgimento dell’attività lavorativa nella misura non superiore al 30% delle aperture domenicali previste a livello territoriale» con esclusione di «madri, o padri affidatari, di bambini di età fino a 3 anni e di lavoratori che assistono portatori di handicap conviventi o persone non autosufficienti titolari di assegno di accompagnamento conviventi».
Per il lavoro domenicale è prevista una maggiorazione retributiva del 30% sulla quota oraria della normale retribuzione; mentre, per quelli cha hanno un riposo settimanale già fissato in un giorno diverso dalla domenica, la maggiorazione è inizialmente stabilita al 15%, sino ad arrivare al 30% a regime. Invece, lo straordinario effettuato di domenica verrà retribuito con un maggiorazione ulteriore del 30% rispetto alla retribuzione normale (quindi, c’è da supporre che le ore di straordinario domenicale saranno retribuite con una maggiorazione del 60%).
Orbene, la questione del lavoro domenicale è centrale nell’equilibrio di questo rinnovo perché è un autentico nodo cruciale per le strategie organizzative del settore del commercio. Non a caso questo rinnovo accoglie alcune delle istanze che Confcommercio aveva manifestato nell’interpello n. 29/2007 al ministero del Lavoro. In quella circostanza, Confcommercio chiedeva al ministero di interpretare l’art. 9, comma 3 del decreto 66/03 ritenendo che la facoltà di deroga alla coincidenza del riposo settimanale con la domenica potesse collegarsi alla facoltà di deroga alla periodicità del riposo settimanale di 24 ore consecutive ogni 7 giorni lavorativi. Insomma, Confcommercio riteneva non solo che il riposo settimanale previsto per la domenica, in presenza di aperture degli esercizi commerciali anche in questo giorno, potesse essere collocato in altro giorno ma anche che quest’ulteriore giorno potesse essere successivo alla domenica così da poter richiedere prestazioni lavorative anche per 7 o più giorni lavorativi consecutivi, e concedere il riposo settimanale in un giorno successivo a compensazione.
Il ministero del Lavoro negò questa interpretazione ricordando che la cadenza settimanale del riposo può essere derogata solo in presenza di interessi apprezzabili, in modo da rispettare sostanzialmente la cadenza dopo sei giorni di lavoro e che senza superare limiti di ragionevolezza.
Se andiamo a leggere congiuntamente la norma del rinnovo ccnl TDS e le modifiche apportate dal d.l. n. 112/08 possiamo trovare soddisfatta – almeno apparentemente – l’interpretazione manifestata da Confcommercio. Infatti, l’art. 41 del d.l. n. 112/08 ha integrato l’art. 9 del decreto 66/03 sul riposo settimanale, stabilendo che il periodo di riposo settimanale «è calcolato come media in un periodo non superiore a 14 giorni»; pertanto, si può ben dire che la normalizzazione organizzativa del lavoro domenicale (rispetto al normale riposo domenicale) hanno reso possibile l’interpretazione a suo tempo avanzata da Confcommercio.
Resta il problema, ampiamente argomentato in dottrina, relativo alla modalità con cui è possibile effettuare le deroghe al regime legale da parte dei contratti collettivi (rinvio per tutti a V. Leccese, La disciplina dell’orario di lavoro nel d. lgs. n. 66/2003, come modificato dal d. lgs. n. 213/2004, in Curzio P. (a cura di) Lavoro e diritti a tre anni dalla legge 30/2003, Cacucci, Bari, 2006, in particolare p. 296). È vero che i contratti collettivi possono derogare alla collocazione del riposo nel giorno di domenica; tuttavia, il combinato disposto dell’art. 9, comma 3 e 17, comma 4 del d.lgs. n. 66/03 impone di prevedere «periodi equivalenti di riposi compensativi»; e quand’anche tali riposi compensativi non fossero compatibili con le caratteristiche organizzative, occorre comunque approntare una «protezione appropriata» per i lavoratori.
Si tratta di considerazioni derivate da ultimo dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia la quale, con riferimento al regime di deroghe, richiede una compensazione per la lesione degli interessi dei lavoratori. Ma prima ancora, la giurisprudenza di Cassazione «ha sempre riconosciuto al lavoratore che per legittime esigenze aziendali ha prestato lavoro nel giorno di domenica il diritto ad una maggiorazione di retribuzione per la maggiore penosità del lavoro domenicale a titolo indennitario» (così da ultimo Cass. 6 settembre 2007, n. 18708, in RIDL, 2007, II con commento di G. Lella). D’altronde, che la collocazione temporale del risposo settimanale normalmente nella domenica sia di maggiore interesse per i lavoratori è desumibile dalla stessa legge allorché considera il riposo settimanale domenicale come regime normale.
Da questo punto di vista, L’intesa di rinnovo appare attenta: viene stabilita la maggiorazione retributiva del 30% per il lavoro domenicale; nulla dice rispetto alla determinazione del riposo compensativo. Se teniamo presente la novella introdotta dal d.l. n. 112/08 relativa alla collocazione del riposo settimanale nell’arco di 14 giorni – quindi al potere di posticipare il riposo – appare evidente che, complessivamente, la disciplina amplia l’area temporale di esigibilità nei confronti dei lavoratori.
Il discorso è identico, ed ancor più serio, per l’altra disposizione introdotta dall’intesa di rinnovo e riguarda il riposo giornaliero di 11 ore.
Si stabilisce che è possibile derogare all’art. 7 del d. lgs. n. 66/03 col quale si stabilisce l’obbligo di 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 ore, derogabile mediante contratto collettivo. Nell’attesa della regolazione da parte della contrattazione collettiva di secondo livello, «il riposo giornaliero di 11 ore consecutive può essere frazionato per le prestazioni lavorative svolte anche nelle seguenti ipotesi: cambio turno/fascia; interventi di ripristino funzionalità di macchinari, impianti, attrezzature; manutenzione svolta presso terzi; attività straordinarie finalizzate alla sicurezza; allestimenti in fase di avvio di nuove attività, allestimenti e riallestimenti straordinari; aziende che abbiano un intervallo tra la chiusura e l’apertura del giorno successivo inferiore alle 11 ore; inventari, bilanci ed adempimenti fiscali ed amministrativi straordinari» garantendo un riposo minimo di 9 ore continuative. E non è inutile aggiungere che l’art. 41 del d.l. n. 112/08 ha inserito la possibilità di frazionare il riposo giornaliero di 11 ore anche in caso di attività caratterizzate da regimi di reperibilità.
Anche per questo caso nulla si dispone in ordine a «periodi equivalenti di riposo compensativo» o a forme di «protezione appropriata». Anzi, a ben vedere, non è prevista neanche una forma di compensazione monetaria. Si tenga presente, peraltro, che il ccnl non stabilisce alcuna durata massima alla giornata lavorativa; sicché la durata continuativa di una prestazione può raggiungere le 13 ore giornaliere e finanche frazionare il riposo di 11 ore, garantendo soltanto 9 consecutive di riposo.
È evidente che l’intesa di rinnovo, soprattutto in questa parte, non preclude il rischio di collusione con i principi costituzionali sulla determinazione della durata massima della giornata lavorativa ex art. 36, comma 2, né con i principi sanciti dalla Corte di Giustizia riferiti al sistema di tutela della salute dei lavoratori in presenza di deroghe. Più che rischio, invece, è una certezza che l’Intesa di rinnovo non abbia predisposto alcun contrappeso alla deroga sul riposo giornaliero la cui norma di legge – non si dimentichi – non riguarda solo il riposo giornaliero ma anche, per negationem, una norma sulla durata massima della giornata lavorativa. In tal senso, non può considerarsi sufficiente l’enunciazione – quasi dovuta – presente nella norma contrattuale, secondo la quale assicurare un riposo continuativo di 9 ore «rappresenta un’adeguata protezione dei lavoratori». È del tutto evidente che non può bastare l’enunciazione delle parti a neutralizzare il giudizio di compatibilità costituzionale e a fugarne i dubbi di legittimità.
4. Rapporti collettivi
Quanto ai rapporti collettivi, l’Intesa si muove su una linea abbastanza comune nella politica contrattuale degli ultimi anni. Una notevole attenzione viene prestata sia agli istituti di informazione e consultazione, sia alla forma più strutturata della bilateralità. A tal proposito merita di essere segnalato il nuovo art. 211bis relativo alle «terziarizzazioni delle attività di vendita». Si tratta di una norma che proceduralizza le esternalizzazioni delle attività di vendita svolte nei negozi e che siano gestite dall’impresa mediante proprio personale.
In verità non si comprende bene cosa si debba intendere per «terziarizzazione o esternalizzazione». Premesso che si tratta di una norma applicabile solo alle aziende con un numero consistente di dipendenti (v. art. 3, comma 1, ccnl TDS), occorre chiedersi se questa fattispecie coincide con quella del trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda ex art. 2112 c.c. In questo caso, è già prevista una proceduralizzazione del trasferimento secondo il disposto dell’art. 47, l. n. 428/90. Perciò, l’art. 211bis dell’intesa di rinnovo sembra rappresentare niente altro che una mera specificazione di quella procedura, seppur corredato con qualche elemento di novità rispetto alle materie che devono essere oggetto di informazione (per esempio, «l’assunzione di rischio di impresa da parte dei terzi subentranti nell’attività conferita in gestione e dei conseguenti obblighi inseriti nel relativo contratto, derivanti dalle norme di legge in tema di assicurazione generale obbligatoria, di igiene e sicurezza sul lavoro, di rispetto dei trattamenti economici e normativi previsti dalla contrattazione collettiva nazionale»).
Ciò detto, la vicenda di questa intesa di rinnovo, si connota sul piano dei rapporti collettivi soprattutto per la vicenda che lo connota fino a questo momento, cioè la mancata sottoscrizione da parte della Filcams-Cgil che potrebbe provocare effetti sia sul piano della tecnica interpretativa relativa al Ccnl, sia sul piano politico-sindacale, tale da suscitare due ordini di dubbi.
In primo luogo, anche alla luce dei delicati profili di legittimità costituzionale con cui si esercita la funzione normativa in deroga alla disciplina legale, si possono nutrire dubbi sulla circostanza che questa Intesa di rinnovo sia pienamente rispondente ai requisiti legali che configurano il contratto collettivo derogatorio. In altre parole, occorre interrogarsi sulla qualificazione giuridica di questa Intesa, così com’è sottoscritta, e verificare se si tratta di un contratto sottoscritto dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.
Si tratta di un problema già emerso con riferimento al contratto collettivo dei metalmeccanici siglato nel 2003 senza la firma della Fiom-Cgil. Allora, però, le parti firmatarie si limitarono a disciplinare l’aumento retributivo, lasciando sostanzialmente inalterato l’assetto normativo (v. A. Lassandari, Considerazioni in margine della “firma separata” del contratto collettivo nazionale per i lavoratori metalmeccanici, in RGL, 2003, I, p. 709 ss.). Oggi siamo di fronte ad un contratto che esercita funzioni normative derogatorie di notevole rilievo. Perciò occorre porsi alcune domande imprescindibili.
Siamo in presenza di un contratto collettivo sottoscritto da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative? Possiamo dare una risposta positiva se guardiamo al versante imprenditoriale; ma possiamo dire altrettanto se la Filcams-Cgil non sottoscrive l’accordo? Beninteso: nessuno può negare la maggiore rappresentatività comparata delle altre due organizzazioni firmatarie; il problema è se da sole siano in grado di rappresentare quella maggioranza di lavoratori sulla cui base l’ordinamento intersindacale ha potuto sopperire alle lacune del diritto civile riguardo all’efficacia dei contratti collettivi. Insomma, data la situazione, non si può essere sicuri che questo contratto collettivo sia pienamente rispondente al canone legale del «maggiore rappresentativa comparata». Se l’esigenza di misura del consenso è un dato acquisito al dibattito sindacale – come testimonia il documento unitario Cgil, Cisl e Uil – a maggior ragione in casi come questi occorre verificare il grado di rappresentatività/consenso di chi sottoscrive un contratto collettivo con funzioni derogatorie. Ne va di mezzo non solo la credibilità dell’agente negoziale, ma anche – e direi soprattutto – la legittimità ope iuris di un accordo che deve avere – per legge – il consenso della rappresentanza sindacale – lato sensu – comparativamente più rappresentativa.
Al di là di ogni considerazione sul contenuto dell’intesa, resta la questione della natura giuridica della fonte contrattuale che è stata finora metabolizzata attraverso una sostanziale selezione maggioritaria dell’agente negoziale. Oggi, invece, siamo posti ancora una volta dinanzi all’urgenza di agire sul piano della verifica della democrazia sindacale e/o della effettiva rappresentatività sindacale. Il tema è all’ordine del giorno nel dibattito intersindacale e, perciò, non è più eludibile. A maggior ragione se quella rappresentanza sindacale vuole accreditarsi come agente contrattuale e normativo capace di governare processi di riorganizzazione difficili e complessi per i lavoratori che rappresenta.