I nostri nipoti ci dovranno ringraziare. Il tumulto di queste settimane e di questi mesi ci sta costringendo a riconvertire il nostro sistema energetico, abbandonando i combustibili fossili, gas e petrolio, troppo spesso russi. Un passo fondamentale per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Un risultato decisivo nella lotta al riscaldamento globale: evitare che entro qualche decennio, il mondo intero frigga per via dell’effetto serra sarà più facile. Evviva. Il problema, però, è che una transizione energetica che già appariva un po’ frettolosa e, comunque, costosa, a questi ritmi accelerati rischia di passare come un tornado su una economia già indebolita.
Solo la notizia che i russi chiudono – per manutenzione – un oleodotto sul Caspio che trasporta greggio dal Kazakhstan (si badi bene, non russo, quindi), facendo mancare al mercato, per un numero imprecisato di mesi, un milione di barili, ha fatto schizzare il prezzo del petrolio e, ancor di più, i pronostici. Fra gli operatori, c’è chi parla di un barile a 250 dollari, contro i 120 attuali. I più misurati si fermano a 150. In realtà, l’isteria è probabilmente eccessiva. Anche se tutto il petrolio russo oggi destinato all’esportazione sparisse dal mercato, buona parte potrebbe essere sostituito da Iran, Venezuela, Arabia saudita, facendo mancare in tutto un 1-2 per cento della produzione globale.
Poco? Tanto? Il punto è che l’economia mondiale non sembra in grado di reggere senza troppi danni un ennesimo scossone, anche piccolo. Nei mesi scorsi, in molti abbiamo parlato di tempesta perfetta, perché l’economia globale si trovava a scontare l’effetto cumulato dei lockdown, poi dell’ingorgo nelle catene di fornitura mondiale, poi ancora di un boom dei prezzi dell’energia. Che altro poteva capitare, dicevamo? Avremmo dovuto sapere che la perfezione è molto difficile da raggiungere e che alla tempesta presunta perfetta mancavano ancora due fattori anche più gravi: un boom inflazionistico generale e una guerra.
I cinque mali globali (pandemia, supply chains, energia, inflazione, guerra) si accumulano, ma si incrociano anche. I lockdown hanno favorito gli ingorghi di forniture, che hanno, a loro volta, accentuato la domanda di energia, che ha alimentato l’inflazione. Ma la crisi dell’energia è stata anche manipolata dalla Russia di Putin, che già pensava alla guerra. In ogni caso, il panorama si è incupito di colpo, al punto che si vede ben poco. Nel senso che nessuno se la sente di fare previsioni economiche, che lui stesso ritenga attendibili. Andrà male, ma chissà quanto.
La guerra e le incertezze che determina (petrolio, grano, metalli) si abbattono, infatti, su uno scenario già compromesso. In Italia, il piccolo miracolo della produzione industriale 2021 si è dissolto: meno 0,8 per cento a gennaio, meno 0,3 a febbraio, prima della guerra. Ma è a livello globale che l’economia rallenta e, questa volta, la politica monetaria – della Fed, ma anche della Bce – invece di favorire la ripresa, punta esplicitamente a contenerla, per contenere l’inflazione. La grande locomotiva americana sembra sul punto di frenare. Idem quella tedesca, il motore europeo. E, in Italia, l’Istat dimezza le previsioni sul Pil.
Naturalmente, tutto è relativo. Il miraggio di una ripresa sia generalizzata che rombante nel 2022, che si intravedeva ancora questa estate, si è dissolto. Ma parlare di recessione è prematuro e, al momento, ingiustificato. L’economia americana che correva al 5,1 per cento nel 2021, crescerà ancora del 3,6 per cento quest’anno. La Germania, che contava su un 3,7 per cento, si dovrà accontentare di qualcosa fra il 2,2 e il 3,1 per cento, scontando una inflazione fra il 5 e il 6 per cento invece di poco più del 3 per cento, come previsto in autunno.
Le speranze erano ben altre, insomma, ma, né per gli Usa, né per la Germania è un passo da funerale. Inoltre, nei centri studi gira ancora la convinzione che stiamo scendendo per una gobba nefasta, ma breve: gli economisti tedeschi prevedono per l’anno prossimo una crescita più robusta (fra il 3,3 e il 3,9 per cento), con una inflazione domata al 2 per cento. Ma quanto valgono queste previsioni? E se la guerra in Ucraina continua e incancrenisce?
Per l’Italia, peraltro, non è solo un problema di incertezze. Anche scenari relativamente ottimistici, come quello fornito dagli economisti tedeschi, sono sufficienti a far suonare l’allarme. Neanche da noi, in realtà, si intravede una recessione. Ma l’Istat ha dimezzato le previsioni congiunturali per il 2022, tagliando la crescita in vista dal 4,7 al 2,3 per cento. Ora, per la storia degli ultimi 30 anni, uno sviluppo sopra il 2 per cento è tutt’altro che disprezzabile. Ma, oggi, assolutamente, non basta. Il paese ha bisogno, qui ed ora, di marciare ai ritmi forsennati del 2021 per tenere a bada gli spauracchi di sempre (deficit e debito), da una parte e, dall’altra, per dare ai piani di rilancio, finanziati dall’Europa, la materia su cui correre. La pioggia degli investimenti pubblici, su una economia troppo gracile, rischia di inaridirsi.
Maurizio Ricci