“Arriva il rimbalzo” si sussurra nei corridoi della politica. In altre parole, siamo al fondo della crisi e l’unica strada, d’ora in poi, è in su. In realtà, se ha ragione il Fmi e, nel prossimo dicembre, il Pil sarà cresciuto solo dello 0,1 per cento e, un anno dopo, solo di un altro 0,4 per cento, l’unico rimbalzo, di cui si può parlare, dopo cinque anni di crisi, è quello che, in America, chiamano “dead cat’s bounce”, il rimbalzo del gatto morto. La ripresa è così asfittica, perchè, in Italia, non basta far ripartire la domanda. La malattia è più profonda e ne eravamo affetti, anche prima che esplodesse la crisi, come mostrano tassi di sviluppo, negli ultimi venti anni, asfittici quanto quelli previsti ora. La diagnosi non è difficile: se, altrove, per far ripartire l’economia, occorre far ripartire gli investimenti, in Italia non basta. Perchè, in Italia, investire non rende. Anzi, fa perdere soldi.
Lo certifica Daniel Gros, presidente del Centre for European Policy Studies di Bruxelles, su lavoce.info. Non è vero che in Italia si investe poco. Rispetto al Pil, gli investimenti sono pari al 20,8 per cento. In Germania sono il 18,9 per cento. Ma investire nell’industria, in Germania, fra il 1999 e il 2011 ha reso il 3,7 per cento. In Italia, lo 0,6 per cento, meno che nel resto d’Europa: se si considera anche l’inflazione, siamo andati in rosso. Lo certifica anche la Commissione europea, misurando l’efficienza marginale del capitale (cioè l’incremento di valore aggiunto prodotto per unità di investimento): l’Italia è il paese europeo dove si aggiunge meno valore, rispetto all’entità dell’investimento. Cento euro investiti in Italia producono meno valore di cento euro investiti in Portogallo. E questo era vero anche prima della crisi del 2008.
Insomma, nel resto d’Europa investire rende di più e realizza di più di quanto accada in Italia. Gros attribuisce la bassa produttività del capitale in Italia alle mancate liberalizzazioni (del lavoro e dei mercati) e, soprattutto, al funzionamento distorto del credito. In altre parole, sono in particolare le banche che non sono capaci di indirizzare gli investimenti verso le scelte migliori. Tuttavia, sono anche le industrie che compiono scelte miopi: l’innovazione – il mantra dello sviluppo nel XXI secolo – in Italia fa paura. Eurostat, l’istituto statistico europeo, compila una classifica delle quote di aziende innovative nelle singole economie nazionali. I criteri sono abbastanza generosi: per innovazione si intende non solo quella dei prodotti o dei processi produttivi, ma anche quella organizzativa o di marketing. E, naturalmente, Eurostat non misura la qualità e l’impatto dell’innovazione. Non basta per vedere l’Italia nelle prime posizioni. In Germania, quasi l’80 per cento delle aziende risulta innovativo, nel senso che dichiara di aver introdotto innovazioni organizzative o produttive. In Lussemburgo, Svezia, Portogallo, Irlanda e Belgio siamo sopra al 60 per cento. L’Italia non sembrerebbe, comunque, messa proprio malissimo: siamo al 56 per cento, più del 53 per cento delle imprese francesi e del 41 per cento di quelle spagnole.
I dati, tuttavia, sono la spia di un’anomalia inquietante. In Francia, oltre un terzo delle imprese che hanno realizzato innovazioni di processo o prodotto lo hanno fatto in cooperazione con altre imprese o istituzioni, una volta su due straniere, europee o meno. In Italia, questo è vero solo per un’impresa ogni otto di quelle che hanno effettivamente realizzato innovazioni. E’ la percentuale più bassa, fra i 27 membri dell’Unione europea, più Islanda, Croazia, Serbia e Turchia. Forse, più che dell’innovazione, le aziende italiane hanno paura degli occhi degli altri. Una tendenza all’autarchia e all’isolamento che neanche aziende leader nella loro tecnologia (cosa che, in Italia, avviene raramente) possono permettersi.
di Maurizio Ricci