Per l’economia, le notizie di questi ultimi affannosi giorni sono due. Della prima hanno parlato tutti: a maggio, l’inflazione ha sfondato, in Europa, l’8 per cento, rispetto ad un anno fa. Della seconda non ha parlato nessuno: in una intervista, il leader dell’Ig Metall – il potente sindacato tedesco dei metalmeccanici che, abitualmente, detta la linea in materia di rivendicazioni salariali – annuncia che nella tornata negoziale d’autunno, chiederà (in partenza) aumenti del 7 per cento nell’arco di due anni. Insomma, punta ad un 3 per cento l’anno. Perché il 3 per cento? Il sindacalista lo spiega: il 2 per cento obiettivo di inflazione della Bce, più un 1 per cento di guadagno di produttività. Esattamente quello che, secondo il capoeconomista della stessa Bce, Philip Lane, è il tasso di aumento dei salari che non compromette il controllo dell’inflazione. La parola d’ordine del più influente sindacato europeo, dunque – nonostante l’8 per cento, prezzi al galoppo e buste paga strizzate – è moderazione salariale. Non era scontato ed è importante. L’unica cosa, infatti, che non è possibile scorgere, in queste dichiarazioni, è l’ombra di una spirale prezzi-salari che incisti, nei meccanismi dell’economia, una inflazione che si autoalimenta.
Ma, allora, la recente svolta di Christine Lagarde e del board della banca centrale europea appare in una luce diversa. C’è una venatura isterica nella stretta che si sta per imprimere alla politica monetaria? Chi sta al timone ha in mente la rotta o si preoccupa solo di tranquillizzare i passeggeri di prima classe? I dubbi non riguardano la scelta di aumentare di un quarto di punto – a luglio – i tassi di interesse, come tutti si attendevano, ma l’indicazione di aumenti sempre più rapidi e più alti nei mesi successivi – circa due punti, si lascia capire, nell’arco di sei mesi – a caccia di una “normalizzazione”, sostanzialmente ad ogni costo. Soprattutto perché è venuto, a sorpresa, a mancare l’altro braccio della manovra attesa. Insieme all’aumento dei tassi, infatti, doveva essere lanciato un piano di interventi per contenerne gli effetti sui debiti pubblici dei diversi paesi. Il progetto è stato confermato, ed è un passaggio importante perché introduce, in via di principio, l’impegno a tenere sotto controllo gli spread, una innovazione rivoluzionaria rispetto a quella che, ancora un paio di anni fa, era l’ortodossia a Francoforte. Ma è rimasto, per ora, nel vago degli annunci e delle intenzioni, senza scadenze e senza dettagli, mentre la cessazione del programma di acquisti di titoli pubblici da parte della Bce è scritto nero su bianco.
Il risultato è stato l’esplosione degli spread. Quello fra il Bund tedesco e il Btp italiano a 10 anni – generalmente considerato il termometro della stabilità finanziaria dell’area euro – è salito a quota 240: gli esperti indicano, di solito, in 250 l’inizio della zona pericolo. Quanto basta per rimettere in circolo vecchi veleni. Ed ecco Salvini tornare a tuonare: “l’Europa ci attacca”. E, contemporaneamente, emergere le indiscrezioni, secondo le quali, nel board di Francoforte, c’è chi penserebbe, riesumando vecchi pregiudizi, che il ritorno di una “disciplina di mercato” non può che far bene all’Italia, perché costi troppo bassi del debito pubblico avrebbero scoraggiato, in questi anni, le riforme.
E’ vero il contrario, come dimostra la collana di riforme che l’Italia ha messo in campo dal 2020 ad oggi. Però, la “disciplina di mercato” costa cara: le banche italiane hanno i portafogli zeppi di titoli di Stato (quasi il il 20 per cento del debito pubblico è in mano alle banche, contro il 10 per cento in Spagna) e man mano che lo spread sale, quei titoli – comprati con rendimenti più bassi – si deprezzano, erodendo il capitale degli istituti di credito.
E’ tornata la crisi? Gli esperti assicurano di no. Sia il Tesoro che le banche hanno le spalle più larghe di qualche anno fa. Il debito pubblico ha, oggi, una vita media di sette anni e, dunque, prima che i rincari di oggi incidano sul costo complessivo deve passare tempo. Anzi, al momento scadono titoli di dieci anni fa, emessi ai tempi del governo Berlusconi, e vengono rinnovati a tassi più bassi di allora, facendo scendere il costo complessivo del debito. Anche le banche hanno consolidato la propria struttura finanziaria.
Ma la situazione resta fragile. L’erosione del capitale delle banche spinge a rincarare il costo dei crediti a famiglie e imprese. Visto che la stessa cosa non accade in Germania o in Olanda, è’ esattamente la “frammentazione della politica monetaria” (con costi del credito diversi da paese a paese) che la Bce dichiara di voler combattere, ma non dice ancora come, rinviando la discussione sulle misure anti-spread. Il risultato è che l’Italia rimane più esposta di altri ai rischi di recessione che incombono su tutta l’Europa. E che, paradossalmente, la stessa Bce rischia di amplificare.
Con l’inflazione all’8 per cento, Francoforte non poteva continuare a pompare soldi nel sistema, comprando titoli e tenendo i tassi sotto zero. Ma rischia di rimbalzare troppo in senso opposto, quello della stretta. L’austerità monetaria ha, infatti, senso quando si tratta di domare la domanda, rendendo più difficile e più caro, per famiglie e imprese, finanziare consumi ed investimenti. Ma, in Europa, oggi, un eccesso di domanda non c’è. Più di metà della corsa dei prezzi è direttamente legata al costo dell’energia e i tassi della Bce non hanno alcun effetto sul prezzo mondiale del barile di petrolio. Dunque, famiglie e imprese hanno meno soldi per comprare benzina, ma il prezzo alla pompa sale lo stesso e, con esso, comunque, l’inflazione. Intanto, però, quei soldi in meno significano che anche l’economia gira meno: la stagflazione, in buona misura quasi prodotta in casa.
L’autogol è figlio dell’ansia di pigiare troppo, e troppo frettolosamente, il freno: si annunciano mesi e mesi di continuo – e sempre più stringente – inasprimento dei tassi di interesse, con l’obiettivo dichiarato di domare un boom di domanda e un’ondata di aumenti salariali, di cui, però, non si vede traccia all’orizzonte. Possibile che a Francoforte, alla fine, se ne accorgano e facciano marcia indietro. Nel mondo delle banche centrali, però, ogni marcia indietro intacca il proprio patrimonio di credibilità. Che è uno strumento importante: consente di ottenere risultati, solo annunciando una mossa, anche senza realizzarla, perché tutti ci credono. E’ il bazooka che mette in fuga gli avversari, anche se non spara. Quello che era stato faticosamente messo in piedi negli anni di Draghi a Francoforte.
Maurizio Ricci