La rivolta delle classi medie nasce dal fatto che non c’è più lavoro per le classi medie. Punto. Tutta la discussione sulle radici psicologiche, sociologiche, culturali del declino e dello spaesamento delle classi medie individua i riflessi di un profondo rivolgimento sociale che, però, ha origine altrove. In una società in cui il lavoro svolto è il più solido strumento di autoidentificazione, le classi medie si guardano allo specchio e non vedono niente: le occupazioni in cui si esprimeva e si realizzava la loro natura di classi medie non ci sono più. C’è chi riesce a fare il salto e ad agganciarsi a quel 35 per cento dell’alta borghesia professionale e delle superqualifiche tecniche. C’è chi si lascia scivolare nel 25 per cento delle occupazioni a basso salario e bassa qualifica che, una volta, avremmo definito popolari. Quando nei sondaggi, le ex classi medie, non si definiscono come tali, ma ceti popolari, insomma, dicono la verità. Più o meno, del resto, si sapeva.
Ciò che colpisce sono i numeri. Nel 1993, alla fine della Prima Repubblica, quelle che chiameremmo le “occupazioni di mezzo” nella scala del prestigio sociale e della busta paga coprivano il 51 per cento degli occupati. Nel 2010, al tramonto della Seconda Repubblica, avevano perso più del 10 per cento. I lavori delle classi medie sono, ormai, non più del 40 per cento del totale e continuano a diminuire.
Lo racconta uno studio uscito dalla London School of Economics, da cui si vede che il fenomeno è globale e, comunque, esteso a tutta Europa. I particolari dicono molto, però, delle differenze fra le singole economie e dei loro diversi potenziali di sviluppo. I dati disegnano uno svuotamento al centro della scala (salariale) delle professioni. Le occupazioni di mezzo coprivano, più o meno ovunque, il 50 per cento dei lavori e sono diminuite, più o meno ovunque, del 10 per cento. Gli esperti la chiamano la polarizzazione del mercato del lavoro. Ma le condizioni di partenza rendono gli effetti di questa polarizzazione molto diversi da paese a paese.
Nel 1993, dunque, i 4 mestieri che offrivano la busta paga più bassa coprivano, in Italia, il 27 per cento degli occupati. Quasi un record, per l’Europa occidentale, superato solo dalla Spagna, a riprova della stortura, nel senso della dequalificazione, del mercato del lavoro italiano. Quegli stessi quattro mestieri, nel mercato del lavoro francese e tedesco si fermano al 20 per cento, in Gran Bretagna al 17 per cento.
Le cose non sono migliorate: nel 2010, il paese che registrava il maggior aumento delle quattro buste paga più povere era quello che già ne aveva di più, cioè ancora l’Italia: oltre il 6 per cento, contro il 4 per cento in più di Francia e Germania e l’1 per cento della Spagna. Attenzione, perchè questo vuol dire che le classi medie italiane sono scivolate verso il basso più di quanto sia avvenuto nel resto d’’Europa, Spagna compresa. Visto che la riduzione dei lavori di mezzo è più o meno uguale, ma che in Italia sono aumentati di più quelli a bassa qualifica, dove sono andati, infatti, i lavoratori degli altri paesi? La risposta è ovvia: verso l’alto. Non si capisce la crisi italiana e la deriva del paese rispetto all’eurozona se non si tiene conto di questo aspetto. In Italia, le occupazioni a più alto stipendio hanno assorbito classi medie per meno del 5 per cento, grosso modo quanto in Francia, in Germania, in Gran Bretagna. Ma la struttura del mercato del lavoro era già diversa, adesso lo è ancora di più e noi siamo scivolati indietro. Stabilito che le occupazioni medie sono, ovunque, diventate circa il 40 per cento, come si è distribuito il mutamento?
In Italia, le basse qualifiche sono, oggi, il 33 per cento del mondo del lavoro e quelle alte il 25. In Francia, basse 24 per cento, alte 38 per cento. In Germania, 23 per cento le prime, 36 per cento le seconde. In Gran Bretagna, 21 per cento e 46 per cento. In Svezia gli otto posti che assicurano lo stipendio più alto coprono il 44 per cento dei lavoratori, in Finlandia il 52 per cento. Insomma, ovunque una manodopera più qualificata e meglio pagata. Competere, nel mondo di oggi in cui il valore aggiunto è quasi sempre cervello, è dura.
Maurizio Ricci