A volte sembra che in Italia ci siano due mondi paralleli. In uno il tempo è quello della follia, dominato da una politica irresponsabile che danneggia il paese buttando a mare i governi; nell’altro la vita scorre in modo sensato, ci si assumono responsabilità, si pensa al bene comune, alle cose importanti per la vita delle persone. È quello che viene da pensare osservando due fatti accaduti ieri: da un lato la notissima crisi che ha portato alla caduta di Draghi, dall’altro il quasi ignorato rinnovo del terzo contratto del settore chimico. Può sembrare forzato mettere insieme due cose cosi lontane, di peso certo enormemente differente, ma proveremo a dimostrare che non sono poi così lontane.
La crisi assurda che ha portato alla caduta del governo Draghi si è sviluppata come uno di quegli incendi improvvisi che stanno devastando l’Italia. Di quegli incendi che prendono come scusa il caldo, la siccità, ma che di fatto sono dolosi: alla fine c’è sempre una mano umana, e non soprannaturale, ad accenderli. La mano, o le mani, che hanno appiccato il fuoco al governo Draghi sono altrettanto umane: oggi si nascondono, negano, ma il dolo lo abbiamo visto tutti, in quel film dell’orrore che è stata la diretta tv dal Senato di mercoledì 20 luglio.
È un dolo che mette assieme interessi di bottega abbastanza meschini, l’istinto irrefrenabile di fare una campagna elettorale con le mani libere, e certamente anche la voglia di appropriarsi di quelle 300 nomine di enti economici, tra i più importanti del paese, che scadono in primavera e che troppi interessi non volevano lasciar decidere a Draghi e ai suoi. Sta di fatto che lo spettacolo della vigliaccheria con cui nessuno ha voluto assumersi la responsabilità di aver mandato a casa il governo migliore nel momento peggiore del paese (pandemia, guerra, clima, inflazione, crisi energetica ed economica, aumento dei tassi di interesse: davvero non ci facciamo mancare nulla) resterà a lungo nelle pupille degli italiani.
E veniamo al mondo parallelo, il mondo del lavoro e delle sue rappresentanze. Mentre si apriva la crisi del governo, sono stati firmati in sequenza diversi rinnovi di contratti di lavoro, spesso con aumenti superiori all’inflazione. L’ultimo risale proprio a giovedì, 20 luglio, giornata luttuosa per la politica, gloriosa per le relazioni industriali, che hanno visto i sindacati di categoria dei Chimici e le loro controparti portare a casa, con reciproca soddisfazione, la firma del contratto energia e petrolio, il terzo in pochi giorni. Come i due precedenti, anche il contratto dell’energia vanta un aumento salariale assai corposo di 235 euro, che seguono i 204 dei chimici e i 243 degli elettrici.
Sta più o meno tutto qui il nesso tra i due mondi, quello politico e quello delle parti sociali: nel primo mondo ci si riempie la bocca ogni giorno con la presunta attenzione ai bisogni dei deboli, dei poveri, degli ultimi, eccetera; mentre nel secondo si fa qualcosa di concreto per dare ai salari i loro ristori “naturali”. Una conferma in più che per appesantire le buste paga non servono farraginosi salari minimi, quanto, appunto, quei buoni accordi che sindacati e imprese, se vogliono, sono perfettamente in grado di fare.
Resta che la crisi politica non potrà che ulteriormente aggravare tutti i problemi che erano già sul tappeto. A cominciare dal dossier lavoro, che Draghi aveva finalmente aperto con le parti sociali e che adesso non si sa esattamente che fine farà. I tavoli di confronto promessi dall’ormai ex premier, su salario minimo, lavoro precario, crisi industriali, transizione energetica, fisco, pensioni, eccetera, si apriranno o no? Gli incontri già fissati per il 25 e 26 luglio forse si terranno ugualmente, ma il governo resterà in carica ancora per un pugno di settimane: basteranno per condurre in porto qualcosa di concreto? È lecito dubitarne. E dunque molto probabilmente toccherà al prossimo governo riprendere in mano il dossier: ma con quale impostazione? Salvini già parla di pensioni a 60 anni, Berlusconi le promette di almeno 1000 euro a tutti, i Cinque stelle garantiscono che, votandoli, si avrà il salario minimo, e così via. E siamo solo all’inizio. Arrivare al 25 settembre sarà un’impresa per stomaci fortissimi.
Questo porta a un’altra osservazione, e cioè che anche all’interno del mondo sindacale la crisi di governo e il nuovo quadro politico aprono problemi e pongono interrogativi. La Cgil, come si sa, non è una fan entusiasta di Draghi, tanto che Maurizio Landini aveva già messo in programma, per metà settembre, una serie di iniziative contro il governo che variavano dallo sciopero alla mega manifestazione di piazza. Ma se non c’è più nemmeno un governo contro cui protestare, come si fa? E ancora: non è un segreto la sintonia tra Giuseppe Conte e Landini, rivendicata spesso da quest’ultimo anche in recenti interviste; verrà riconfermato, questo comune sentire, alla luce della nuova vicinanza di Conte alla destra, emersa nel voto di fiducia che in qualche modo ha resuscitato l’alleanza giallo-verde del Conte Uno, mentre in parallelo si frantumava il campo largo sognato da Enrico Letta, il quale giura che con Conte, ormai, è finita? E la Cisl, che ha da tempo con la Lega una più che buona sintonia, che posizioni prenderà nei confronti di quello che sarà il nuovo assetto politico scaturito dal voto di settembre, e che sarà quasi inevitabilmente di destra? Quel patto sociale che la Cgil ha sempre rifiutato, la Cisl sempre richiesto, e sul quale Draghi non ha mai deciso: lo farà, o magari lo imporrà, il prossimo esecutivo? E nel caso, con chi lo farà: avremo forse, nuovamente, un sindacato di lotta e un sindacato di governo, come già sciaguratamente era accaduto negli anni degli accordi separati ai tempi del governo Berlusconi?
Tante le domande, ma è troppo presto per avere le risposte. Come dice la nota canzone: lo scopriremo solo vivendo. Con un forte augurio: che quel tritacarne mostruoso, capace di masticare perfino un osso duro come Mario Draghi, non finisca per sminuzzare anche la già precaria unità delle tre confederazioni.
Nunzia Penelope