Quarant’anni fa, praticamente in questi giorni, si svolse la famosa vertenza Fiat, quella della marcia dei quarantamila per le strade di Torino. Famosa perché se ne parlò tantissimo per tanti anni, dato che era stato un vero punto di svolta delle relazioni industriali. Per noi oggi tornare su quella vicenda con le interviste che abbiamo fatto a Enzo Mattina e Giuseppe Gherzi, ma anche con il blog di Fabrizio Tola, è stato un po’ rivivere quella vicenda e forse ripercorrere la storia di quei 35 giorni può aiutarci a capire in che guai si trovano le relazioni industriali ai nostri giorni. Dicevamo che fu una vertenza cerniera, perché segnò il passaggio da una fase a un’altra, del tutto differente. Per capire di cosa stiamo parlando dobbiamo fare però un altro passo indietro, di dieci anni, all’autunno caldo del 1969. Anche in quell’occasione erano stati i metalmeccanici i protagonisti, assieme però a tutte le categorie dell’industria. Che vinsero su tutta la linea, e infatti il sindacato conquistò un potere egemone, per anni chiese e le imprese non potevano far altro che concedere quanto veniva chiesto.
Rimase famosa un’intervista che rilasciò nel 1971 Giuseppe Glisenti al settimanale Il mondo. Glisenti era il responsabile delle relazioni industriali dell’Iri e in quanto tale il presidente dell’Intersind, l’associazione delle aziende Iri, Efin ed Egam, tutte imprese a partecipazione statale. Glisenti, che pure era sinceramente per il dialogo con il sindacato, per la ricerca continua di un accordo, in quell’occasione si lasciò andare e a un grande giornalista come Federico Bugno raccontò cosa stava accadendo. Per capire questo passaggio basta ricordare il titolo di quell’intervista: La sfida che spacca le aziende. Perché questo stava accadendo, le aziende non riuscivano a reggere il passo a causa delle continue rivendicazioni del sindacato, il costo del lavoro cresceva a dismisura, non si faceva niente senza chiedere prima ai sindacati. Glisenti cercò con quell’intervista di reagire, di porre un freno allo strapotere del sindacato, ma non ebbe successo. Tra imprese e sindacato non c’era dialogo. Ci provò ancora nel 1972 il presidente di Confindustria, Renato Lombardi, chiedendo un’intesa a tratto generale, ma dopo pochi incontri il sindacato lasciò cadere, di accordo non voleva sentir parlare, non gli interessava.
A un’intesa si arrivò solo nel 1975, quando era presiedente di Confindustria Gianni Agnelli, figura prestigiosa, che peraltro portò il sindacato all’accordo solo perché accettò senza troppo discutere il valore unico del punto della scala mobile. In pratica accettò che al crescere dell’inflazione i salari per via della scala mobile uguale per tutti, non più in percentuale, crescessero della stessa cifra. Un accordo rovinoso perché l’inflazione era altissima e questi aumenti uguali per tutti ridussero in maniera sproporzionata la distanza che esisteva tra i salari delle diverse categorie di lavoratori. Ma tant’era, altro non si poteva fare, continuava a comandare il sindacato. Poi, quasi d’improvviso, arrivò la vertenza Fiat, al termine della quale il sindacato fu sonoramente battuto, costretto a un accordo che non volevano e del quale i lavoratori lo rimproverarono a lungo. Ma perché in soli cinque anni era cambiato tutto? Perché le relazioni industriali allora presero un’altra strada?
Le spiegazioni sono state tante e anche nelle due interviste e nel blog sul nostro giornale ne vengono indicate più d’una. C’è da dire che prima della vertenza dei 35 giorni, dall’inizio di settembre alla metà di ottobre, c’erano stati due avvertimenti, chiarissimi, ma allora non furono capiti a fondo. Il primo nel settembre del 1979, la vertenza dei cabinisti. Questi cabinisti erano dei Lavoratori del reparto verniciatura a Mirafiori che lavoravano in un ambiente malsano, tanto è vero che erano previste delle pause consistenti, dieci minuti ogni ora. Ma la Fiat aveva modificato le macchine, adesso tutto si svolgeva in un ambiente chiuso e i lavoratori restavano fuori. Così l’azienda eliminò d’imperio quei riposi, non più indispensabili. Ci furono delle reazioni sindacali, ma poi la cosa finì lì. Un segnale che il sindacato non era invincibile. Dopo due mesi la vicenda dei 61 violenti, sempre alla Fiat. L’azienda improvvisamente licenziò 61 persone accusandole di comportamento violento. Non era un’accusa di poco, quelli erano gli anni del terrorismo, non si scherzava. Anche in questo caso il sindacato protestò, ci fu un grande dibattito, alla fine però i licenziamenti rimasero. Un altro segnale che il sindacato cominciava a perdere colpi.
E poi i 35 giorni. La Fiat era in difficoltà, si parlava di mettere fuori produzione 12 o 13mila persone. Erano tanti, ma il sindacato sapeva che l’azienda era in crisi, voleva discutere, indicare chi doveva essere colpito dal provvedimento, cercare una rotazione tra tutti i lavoratori per attutire il colpo. Invece la Fiat mostrò il volto più intransigente, resistette a tutte le pressioni, che furono tantissime e potenti, alla fine spiazzò il sindacato dividendo i lavoratori perché invece di licenziare 13 mila persone ne mise 24mila in cassa integrazione per 18 mesi a zero ore, azione durissima, ma soprattutto pubblicò i nomi delle persone colpite dal provvedimento. Automaticamente tutti gli altri, 125mila, tirarono un sospiro di sollievo e in qualche modo tirarono i remi in barca. Ma non fu solo questo, perché la città, Torino, cominciava a non poterne più della battaglia in corso. I sindacati non avevano occupato la fabbrica, ma avevano proclamato lo sciopero generale e avevano bloccato i cancelli di Mirafiori. Nessuno entrava a lavorare, ma le pressioni erano tante e il clima diventava difficile. La svolta venne una mattina quando i capi squadra si riunirono in un teatro della città e poi sfilarono per le vie di Torino. Non erano solo i capi a sfilare, c’erano tantissimi lavoratori, impiegati e operai, e c’era la gente comune, tutti quelli che erano stanchi del braccio di forza. Dissero che erano 40mila, magari erano meno, ma non era quello che importava. Il punto era che il sindacato non aveva la città alle spalle, non gestiva più la vertenza. Enzo Mattina e Gherzi hanno confermato, dai loro due diversi punti di vista, questo stato di cose.
A indebolire il sindacato fu soprattutto l’abitudine a vincere, per cui si chiedeva e si chiedeva senza pensare più di tanto alle conseguenze. Ne fa fede l’accoglienza che solo due anni prima, nel 1978, ebbe il piano Pandolfi, un tentativo del governo in carica di conciliare le esigenze del sindacato con quelle dell’economia. Era un piano sensato, i sacrifici chiesti ai lavoratori, un blocco dei salari per tre anni, erano compensato da benefici fiscali consistenti, per cui tutto diventava possibile. Ma il sindacato bocciò il piano e anche Pandolfi, e non se ne fece più nulla. Ma andare avanti così non era possibile. L’Italia aveva aderito allo Sme, il sistema economico europeo che costringeva a maggiore attenzione, le svalutazioni della lira di una volta non erano più possibili come prima.
E poi era cambiato il clima politico. L’avvicinamento del Pci alla maggioranza di governo, che stava diventando una realtà, aveva avuto un brusco freno perché non c’erano più le convergenze di una volta. La Dc aveva stretto un patto con i socialisti di Bettino Craxi ed era nato il Caf, qualcuno se lo ricorda, il patto tra Forlani, Craxi e Andreotti. Il Pci, con la svolta di Salerno, si era messo fuori gioco, e cercava in qualche modo di ribadire la sua forza nella gestione dei temi sociali. Aveva cercato un paio d’anni prima di imporre ai sindacati una linea di moderazione, passata come la svolta dell’Eur, lanciata con grande rumore da Luciano Lama. Ma la Cisl non aveva risposto come la Cgil si aspettava e l’iniziativa era naufragata.
Parallelamente si era rafforzata la Confindustria, che, dieci anni dopo il documento Pirelli, che nel 1969 aveva determinato una rivoluzione dei poteri dentro la confederazione, cominciava ad avere un suo equilibrio. In realtà Confindustria non entrò nel gioco della vertenza Fiat, il suo nuovo presidente Vittorio Merloni se ne tenne lontano. Ma era chiaro che gli equilibri determinati dall’autunno caldo erano cambiati. E infatti da quell’anno ritornò il dialogo tra le parti sociali, furono gli anni delle grandi battaglie e dei grandi accordi per la scala mobile. Le relazioni industriali avevano voltato pagina. Una chiara indicazione di alcune regole di buon senso da non dimenticare per il buon andamento delle relazioni industriali. Primo, non si deve mai stravincere, sempre tener conto degli interessi dell’altra parte, anche se al momento è soccombente. Secondo, è necessario tener nel debito conto le reazioni della società, perché il sindacato e le impese prendono in autonomia le loro decisioni, ma non si può non tener conto del contesto nel quale si vive. Terzo, e più importante, occorrono le giuste alleanze tra impresa, sindacato e politica, altrimenti si costruisce sulla sabbia.
Massimo Mascini
Per i nostri lettori pubblichiamo qui di seguito una scelta delle notizie e degli interventi più significativi apparsi nel corso della settimana su ildiariodellavoro.it (Vai al sito per leggere il giornale completo, aggiornato quotidianamente dalla nostra redazione).
40 anni fa la vertenza Fiat
Nel 40esimo anniversario della vertenza Fiat e della marcia dei 40 mila, il direttore del Diario del lavoro, Massimo Mascini, ha intervistato Enzo Mattina, allora segretario generale della Uilm. Per Mattina gran parte della colpa della caduta del sindacato fu di Enrico Berlinguer, che nel mezzo della vertenza, forse nel momento più difficile, andò a Torino ai cancelli della fabbrica e con una frase a sorpresa delegittimò il sindacato. Un colpo a freddo, a suo avviso determinato dalla necessità del Pci di recuperare il controllo della situazione politica e sociale che stava scappando di mano al suo partito. Sempre sulla vertenza Fiat, Nunzia Penelope ha intervistato Giuseppe Gherzi, all’epoca responsabile dell’area sindacale all’Unione Industriali di Torino. Per Gherzi, al di là dei vinti e dei vincitori, che pure come è noto ci furono, la vertenza Fiat e la sua conclusione con l’accordo post- marcia segnò una presa d’atto di responsabilità da parte di tutti i soggetti, in un periodo difficilissimo per il paese, segnato dalle tensioni sociali, dalla debolezza della politica e dal terrorismo. In un suo blog Fabrizio Tola, allora “colletto bianco” appena eletto nel Consiglio di Fabbrica di un’azienda metalmeccanica di Pomezia, spiega che la vertenza segnò il discrimine tra l’avanzata dei lavoratori, alla partecipazione e al coinvolgimento del sindacato nel definire l’organizzazione del lavoro, o tornare indietro al “zitto e lavora”.
Contrattazione
Questa settimana è stato siglato l’accordo per velocizzare i cantieri delle grandi opere. L’intesa, sottoscritta da i sindacati di categoria di Cgil, Cisl e Uil e il Mit, prevede l’ all’ottimizzazione dei turni di lavoro anche sulle 24 ore, per favorire l’incremento dell’occupazione in condizioni di piena sicurezza e con l’utilizzo delle migliori pratiche del settore.
La nota
Tommaso Nutarelli fa il punto sugli ultimi sviluppi della trattativa per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici.
Analisi
Mimmo Carrieri spiega perché la realizzazione di un nuovo patto sociale, tra parti sociali e governo, stenta a decollare in Italia. Il quadro nazionale, sostiene Carrieri, tutt’altro che chiaro e lineare, potrebbe essere riassunto dalla seguente formula: il governo, non solo quello ora in carica, è troppo debole per poter fare a meno del sostegno delle parti sociali, nello stesso tempo queste ultime non sono abbastanza forti e coese da imporre la prospettiva di un rinnovato patto concertativo.
Massimo Forbicini spiega come il Fondo Nuove Competenze, al quale realtà come Tim, Vodafone e Wind Tre attingeranno per attuare nuovi piani formativi, rappresenta un segnale tangibile e concreto verso la riconversione professionale realizzata mediante la contrattazione collettiva, con l’obiettivo di rimodulare l’orario di lavoro, nella misura di massimo 250 ore pro-capite, per rispondere in modo fattuale allo sviluppo delle “nuove” competenze, che, si renderanno necessarie per affrontare le innovazioni tecnologiche ed organizzative future.
Interviste
Tommaso Nutarelli ha intervistato Donatella Prampolini, vicepresidente di Confcommercio. Prampolini descrive il 2020 come annus horribils per l’economia, con un calo del Pil di oltre nove punti, e una perdita di oltre 100 miliardi di consumi. Anche il Natale sarà sottotono. Per uscire da questa crisi le risorse europee e a deficit devono essere impiegate per riforme a lungo termine, abbandonando la logica dei sussidi a pioggia. La numero due di Confcommercio non condivide alcune scelte politiche, come il non ricorso al Mes, e invita l’esecutivo a un dialogo costante e non sporadico con le opposizioni sul Recovery Plan.
Emanuele Ghiani ha intervistato la segretaria generale della Filcams-Cgil, Maria Grazia Gabrielli, per fare il punto sulla situazione di quest’anno sui vari rinnovi contrattuali come il turismo, il terziario e i servizi. Per la segretaria, i sindacati sono riusciti a mettere un argine alla crisi economica che la pandemia ha portato quest’anno, grazie al blocco dei licenziamenti e agli ammortizzatori sociali, ma non basta. Nel 2021 sarà necessario un piano di sviluppo solido che guardi in un’ottica di prospettiva, lavorando per garantire regole certe alla contrattazione e al mondo del lavoro e di conseguenza per lo sviluppo del Paese.
Il guardiano del faro
Marco Cianca racconta la macabra danza della politica. Il parlamento è ormai esautorato da qualsiasi tipo di legittimazione e le giuste misure, imposte per contenere i contagi, vengono comunicate con un inutile e irritante paternalismo.
I blog del Diario
Nunzia Penelope riflette su una frase a sorpresa pronunciata da Matteo Renzi nel suo discorso al Senato: tra le accuse rivolte dal leader di IV a Conte, c’è stata infatti anche quella di non aver voluto ascoltare il sindacato sul Recovery Plan. Una affermazione singolare, venendo proprio da chi, come Renzi, al sindacato non ha mai prestato attenzione, ma certo non casuale: e che per questo, forse, meriterebbe di essere approfondita.
Paolo Pirani afferma la necessità di interrogarsi sul ruolo e sul modo in cui la stampa ha raccontato la pandemia, il più delle volte come un evento e non come quello sconvolgimento delle nostre società nel quale siamo tuttora immersi
Giuliano Cazzola chiede un atto di ”pietas” per Ottaviano Del Turco. Rivolgendosi in particolare alla Cgil, alla quale Del Turco ha dedicato gran parte della vita, Cazzola chiede che non gli si rifiuti un segnale di solidarietà umana.
Gaetano Sateriale sostiene che la “società civile” è più ricca e spesso più competente del ceto politico. Un bel problema per un sistema di democrazia parlamentare fondato su partiti (o pseudo movimenti) che non sono radicati nei territori e non riescono più a selezionare una classe dirigente all’altezza delle crisi in atto. Mentre la società civile mostra sempre più di essere un serbatoio di energie da impiegare nel Paese.
Luigi Agostini spiega i nuovi assetti geopolitici che la pandemia sta realizzando al livello mondiale.
Diario della crisi
Faib Confesercenti, Fegica Cisl, Figisc Anisa Confcommercio hanno proclamato lo sciopero dei benzinai per tre giorni, dal 14 al 17 dicembre, il più lungo mai decretato. Per questo l’Autorità di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali ha chiesto ai sindacati di ridurre le chiusure, a causa dell’emergenza sanitaria in corso, pur ritenendo legittima l’astensione proclamata, e ha invitato le parti a una ripresa del dialogo. I sindacati di categoria hanno proclamato la mobilitazione del trasporto pubblico locale. Le sigle sottolineano come dopo uno stop di alcuni mesi delle trattative a causa della pandemia, il confronto con le parti datoriali Asstra, Agens e Anav “è nuovamente saltato” e sono pronti a una mobilitazione di tutto il settore “per ottenere un adeguamento salariale e normativo”.
Documentazione
Questa settimana è possibile consultare il testo integrale della bozza del Piano del governo Conte per la destinazione delle risorse del Recovery Fund, il protocollo dei sindacati e del ministero dei Trasporti per velocizzare i cantieri delle grandi opere e il testo del rapporto Alleanza EducAzioni (di cui fa parte la Cgil) “Investire nell’infanzia”. È inoltre presente il Misery Index di Confcommercio, la ricerca della Fondazione Di Vittorio sul mercato del lavoro, le stime dell’Istat sul mercato del lavoro nel III trimestre e la produzione nell’industria.